L'ICONOGRAFIA DELL'ANFITEATRO FLAVIO NEI
SECOLI
Nelle pagine che
seguono sono stati raccolti numerosi documenti figurativi dell'Anfiteatro
Flavio, più comunemente noto come Colosseo, dal Medioevo al Romanticismo. Un
ampio arco cronologico che consente di prendere visione del mutamento
intervenuto nella rappresentazione dell'edificio, che da emblema di Roma nel
Medioevo e nel Rinascimento, diviene elemento architettonico di irresistibile
fascino durante la stagione Romantica. Luogo di combattimenti sanguinosi e
"cava" di marmo per i nuovi simboli della nuova Roma rinascimentale e
cristiana, fra tutti il Palazzo della Cancelleria e la basilica di San Pietro,
l'edificio ha saputo sfidare i secoli dilettando la sensibilità di viaggiatori
e artisti, intellettuali e poeti, che ne fecero luogo di silenziose meditazioni
con la storia e con la Natura la quale, tra gli anfratti delle antiche pietre,
animava le rovine con inattese fioriture di acanti, viole, caprifogli. Nel
medioevo castello della famiglia Frangipane, nel tardo Cinquecento sfiorato dal
progetto che lo avrebbe trasformato in una fabbrica tessile (Domenico Fontana),
per gli artisti neoclassici e quindi romantici il Colosseo seppe trasformarsi
in uno studio a cielo aperto, per la Roma cristiana un nuovo spazio, fisico e
simbolico, riscattato dal paganesimo. Forse nessun altro edificio ha saputo
rivestire nei secoli un numero così elevato di funzioni e investire
l'immaginario dei visitatori di suggestioni, le più diverse. La moderna
archeologia, ripulendolo energicamente dalle piante - e, in modo assai meno
duraturo, dagli agenti inquinanti- ha restituito l'edificio all'aspetto che
conosciamo oggi: un luogo di visita obbligata quanto distratta, affollato,
chiuso però a quei segreti percorsi notturni che deliziavano, tra gli altri,
Goethe e Madame de Stael, così come chiuso sempre più nell'angusto stereotipo
di quella Roma antica che si trova riflessa immancabilmente nelle cartoline
turistiche e nell’omologante e kitch produzione di oggetti da bancarella.
Ecco dunque che
questo percorso ha come principale finalità quella di riscattare il monumento
proprio da tale immagine stereotipata, consegnandolo a una immaginazione e ad
una sensibilità che si nutrano della sua storia (e dell'arte che esso ha saputo
ispirare) al fine di poter ancora oggi, con occhi moderni, dialogare col
passato in vista di una rigenerazione futura. Perché l'epoca in cui ci
troviamo a vivere, quella che spesso con troppa enfasi definiamo modernità, non
sia presuntuosamente il traguardo della storia, ma solo una tappa, e
probabilmente non la migliore, di un lungo percorso.
(Moneta di Alessandro Severo, 223 d.C.)
“L’anfiteatro di
Vespasiano detto coliseo o colosseo è considerato come uno de’ più magnifici
edifizj del mondo; onde Marziale disse dovergli cedere anche le piramidi ed i mausolei,
e dover la fama parlar di esso solo per tutti gli altri –Cassiodoro è d’avviso
che col denaro speso nella fabbrica del colosseo si sarebbe potuto fabbricare
una città capitale. (Variar. Lib. IV Epis. 42). Questa grandiosa mole che ebbe
principio sotto Vespasiano, e fu condotta a termine e consacrata da Tito
ottenne il nome di coliseo o colosseo non perché giacesse vicino al colosso di
Nerone alto centoventi piedi, opera di Zenodoro, che fu collocata nel vestibolo
della sua casa aurea: ma perché quest’edifizio compariva tra tutti gli altri
quel che era tra le statue un colosso, e perché anticamente così si appellava
tutto ciò che eccedeva in grandezza. La quale opinione contraria a quella del
Cardini, e di molti altri critici si può vedere confermata da validi argomenti
nell’opera del Maffei sugli anfiteatri degli antichi, ed in quella del Canonico
Alessio Mazochio sopra l’anfiteatro di Capua. Il Fontana dà al coliseo la
lunghezza di piedi 564, e la larghezza di 467, il campo è lungo piedi 273,
largo 173: il circuito fu di piedi 1566”.
(Giulio
Ferrario, Il Costume antico e moderno o Storia del Governo, della Milizia,
della Religione, delle Arti, Scienze ed Usanze di tutti i popoli antichi e
moderni, vol. V, Firenze, per Vincenzo Batelli, MDCCCXXVIII)
Beda, monaco
benedettino e sacerdote (c. 672 –
25 maggio 735)
, al
quale è stato associato il titolo di Venerabilis già due generazioni dopo la
sua morte, è
stato autore di questa celebre profezia, secondo cui
Coliseus
stabit et Roma.
Quando cadet Coliseum,
cadet et Roma.
Spettacoli e orrore nel
colosseo
L’anfiteatro
Flavio venne inaugurato nell’80 d.C. Rivolgendosi a Tito, il poeta Marziale
scrisse: «Roma è stata resa a se stessa, o Cesare, e sotto la tua guida ora
sono del popolo i luoghi di delizie che erano stati di un despota.»
Le cronache
testimoniano di come le belve fossero condotte nell’arena talvolta con tutta la
gabbia (D. Cassio, Historia Romana, LXXII, 19), e in altri casi fatte irrompere
bruscamente a gruppi, suscitando la sorpresa degli spettatori. Ancora Dione
Cassio (XXI, 1) riferisce che gli animali venissero fatti emergere dal suolo
stesso dell’arena mediante botole. A questo scopo erano le numerose gallerie e
locali sotterranei, che avevano la funzione di quinta scenica, in cui erano
montacarichi in grado di sollevare le gabbie fino al livello dell’arena
(Vopisco, Probo, 19). Talvolta i poveri animali, già debilitati dalla lunga
cattività e spaventati, si rifutavano di uscire dalla gabbia e restavano inerti
sul posto (Tertulliano, Passio SS. Perpetuae et Felicitatis, 21). A questo
punto li si eccitava con ogni mezzo, anche il più crudele: frustate, ferite,
grida, fino ad arrivare, specie per i tori, all’uso del fuoco o del pungolo,
analogamente a come fanno oggi i toreadores con le banderillas.
La
costante richiesta di spettacoli cruenti arrivava ad atti di ferocia inaudita.
Cassio ricorda che sotto Caligola «sono venuti a mancare criminali e lo
spettacolo doveva quindi essere sospeso. Quello allora aveva dato l’ordine di
andare a catturare e di gettare alle bestie senza alcun motivo degli spettatori
a caso. A questi disgraziati, prima di farli entrare nell’arena, hanno tagliato
la lingua per non fare sentire al pubblico le grida di aiuto o gli improperi
contro l’imperatore.» (D. Cassio, Historia romana, LIX, 10). [Domenico Augenti,
Spettacoli del Colosseo: nelle cronache
degli antichi, Roma, «L’Erma» di Bretschneider, 2001]
Quando
Costantino proclamò la libertà di culto per i cristiani, gli spettacoli
anfiteatrali continuarono senza alcuna interruzione. Si trattava di una
tradizione così profondamente legata ai romani che le espressioni del munus,
della venatio e del summum supplicium si mantennero inalterate ancora durante
il IV secolo, riscuotendo ancora un grande successo. Lo dimostra anche la
scelta di ornare il pavimento di una villa tuscolana in località Torrenuova,
sulla via Casilina, con un mosaico raffigurante l’esecuzione di “damnati ad
bestias”, oggi conservato nella Galleria Borghese di Roma. La sua datazione,
tra il 310 e il 320, coincide dunque con l’impero di Costantino. Il primo che
si oppose a questa tradizione fu il
cartaginese Tertulliano che, convertitosi in un primo momento alla fede
cattolica, tra II e III secolo si rivolse ai cristiani esortandoli a non partecipare agli spettacoli nell’anfiteatro,
considerati il riflesso di culti idolatri e visti quali fonti di corruzione
morale (De spactacula). Il pensiero di Terulliano, che individuava
nell’Anfiteatro la dimora di demoni pagani, si fece largo nell’immaginario
popolare al punto che, nel basso medioevo, il Colosseo assunse una connotazione
fortemente negativa, quasi fosse tempio dei demoni. Dall’anno della sua
inaugurazione, nell’80 d.C., l’anfiteatro flavio fu il luogo dove gli
imperatori organizzavano incontri cruenti tra animali e uomini. Ad esempio
Gordiano I, durante il suo unico anno di regno (238), offrì al popolo dodici
spettacoli (uno al mese) in cui fecero la loro comparsa 500 coppie di
gladiatori. In un solo giorno vennero sacrificati cento leoni e in un altro
mille orsi.
Rossella
Rea, I cristiani, vittime e spettatori nel templum demonum: il Colosseo, in pp.
129- 133. Risalente al tempo di Gordiano I si conserva una moneta con
l’immagine del Colosseo, dove è ben visibile anche la Statua solis fatta
erigere da Nerone. Dalla prossimità del colosso neroniano l’anfiteatro flavio
derivò l’appellativo di Colosseo, ma nei testi medievali è indicato anche come
Templum solis. In prossimità del Colosseo si trovava forse anche la grande
statua bronzea di Costantino la quale, secondo le fonti, era l’idolo più
importante di Roma, e come tale venerato da tutti i visitatori. Per tale motivo
papa Silvestro avrebbe fatto distruggere la statua e portato i frammenti nei
pressi del Laterano.
Jean-Léon
Gérôme (1824-1904), Le ultime preghiere
dei martiri cristiani, olio su tela, cm 87,9 x 150,1, Baltimora, Walters
Art Gallery. Questo dipinto, commissionato da William T. Walters nel 1863, venne
consegnato solo venti anni più tardi.. Il pittore ha ambientato la scena all’interno
del Circo Massimo, nonostante vi siano forti somiglianze col Colosseo. Curioso
che, sullo sfondo, il pittore abbia inserito una collina sulla quale spicca una
statua colossale, in tutto simile all’Acropoli ateniese piuttosto che al romano
Colle Palatino.
Immagini del Colosseo tra Medioevo e Rinascimento
Taddeo di Bartolo, Veduta di Roma,
1406-14, Siena, Palazzo Pubblico Anticappella.
In una lettera
inviata nel 1411 da Roma all'imperatore di Bisanzio, Manuel Chrysoloras (Emanuele Crisolora) descrive il modo in cui i monumenti stimolavano la sua immaginazione sull'antichità:"Dai
resti di queste statue e colonne, di questi monumenti funebri ed edifici si
possono riconoscere (tutti i tratti fondamentali di questa città): la sua
ricchezza di denaro e di artisti e le loro qualità, anche la sua grandezza e
maestà, la sua sensibilità per le cose elevate e l'amore per il bello, la sua
opulenza e il suo lusso. Oltre a ciò il suo timore di Dio, la sua generosità,
il suo amore per lo sfarzo, il suo ideale politico e le sue vittorie, tutta la
sua prosperità e il suo dominio sui popoli, la sua fama e le sue imprese
militari". Anche Brunelleschi deve aver elaborato con i suoi studi una
immagine personale della città nel periodo antecedente la sua rovina. Le
immagini che venivano comunemente proposte in quel periodo non corrispondono, se
non in misura minima, al quadro della situazione presentato dai nuovi
archeologi. Esse collimavano piuttosto con quei dipinti o scenografie tipici
del Rinascimento che dovevano riprodurre l'ambiente antico inserendo monumento
imponenti, o reali come il Colosseo, il Pantheon, la Colonna di Traiano, o
fantastici, con case di tipo più o meno del periodo contemporaneamente
collocate su ampie piazze, circondate da un'aura di placido decoro anche se
abitate, senza segni di attività umana, come già si nota, nel XIV secolo, nelle
rappresentazioni di scene cittadine reali, ben lontane dalla "Roma fumosa,
ricca, rumorosa" (Orazio) descritta da molti scrittori antichi.
H. Gunther, La rinascita
dell'antichità in Rinascimento. Da Brunelleschi a Michelangelo. La
rappresentazione dell'architettura (catalogo della mostra Venezia, Palazzo
Grassi, 31 marzo- 6 novembre 1994), a cura di H. Millon e V. Magnago
Lampugnani, Milano, Bompiani, 1994, pp. 259-305, in part. p. 273
Con lo studio dell'antichità classica, promosso dalla sensibilità umanistica, le rilevazioni delle antichità romane si fanno via via più dettagliate e precise. In alcuni casi tuttavia, come nel disegno del bolognese Amico Aspertini conservato al British Museum, l'osservazione dà luogo a risultati inattesi e decisamente deformati rispetto al reale aspetto del monumento, che viene ritratto con una accentuata verticalità, quasi una costruzione turrita.
A. Aspertini, Colosseo, Londra, British Museum, mm. 219x119.
In ogni casi, quella dell'Aspertini risulta essere una eccezione (nonostante sembri ricalcare il disegno di Barnardino della Volpaia del Codice Corner conservato al Soane Museum di Londra). Già Francesco di Giorgio Martini propone una visione in pianta e in sezione dell'edificio nel Codice Saluzziano della Biblioteca Reale di Torino, seguito poi in forme piuttosto simili da Giuliano da Sangallo.
Francesco di Giorgio, dal Codice Saluzziano, 148, f. 71r
Francesco di Giorgio
Martini
(1439- 1502), Veduta e pianta del Colosseo, Torino, Biblioteca Reale,
Codice Saluzziano 148, f. 71r
Questo scultore,
pittore e architetto studiò e rilevò i monumenti antichi spingendosi fino alla
Campania e fu attivo come traduttore di Vitruvio e autore di trattati
d'architettura. Nonostante tutta l'universalità della sua cultura e la sua
abilità nell'arte del disegno e il grande ingegno architettonico i suoi studi
sull'antico non raggiunsero la perfezione tecnica teorizzata da Alberti.
Nessuno dei suoi rilievi sarebbe stato traducibile in un modello che reggesse
ai criteri albertiani, come anche i suoi ordini vitruviani non si basarono
ancora sul trattato albertiano. La sua riproduzione del Colosseo in pianta,
sezione prospettica e veduta corrisponde a un modo di rappresentazione già in
uso prima di Alberti e, nella sua semplificazione schematica, va solo di poco
oltre la veduta di Filarete di circa trent'anni anteriore. Questo fatto può
essere spiegabile considerando il clima culturale della sua città natale, Siena,
lontana dagli ambienti in cui ferveva il dibattito architettonico e non si
trova più nei disegni quasi contemopanei di fiorentini come il Cronaca o
Giuliano da Sangallo.
C.L. Frommel, Sulla
nascita del disegno architettonico, in Rinascimento. Da Brunelleschi a
Michelangelo. La rappresentazione dell'architettura (catalogo della mostra Venezia,
Palazzo Grassi, 31 marzo- 6 novembre 1994), a cura di H. Millon e V. Magnago
Lampugnani, Milano, Bompiani, 1994, pp. 101-120, in part. pp.106- 107.
Giuliano Da Sangallo, dal Taccuino S IV 8 f. 7r
Giuliano da Sangallo (1445 ca- 1516), Pianta
del Colosseo, Siena, Biblioteca Comunale, Taccuino S IV 8, f. 7r; Sezione del Colosseo, Siena, Biblioteca
Comunale, Taccuino S IV 8, f. 5v; Alzato del Colosseo,
Siena, Biblioteca Comunale, Taccuino S IV 6, f. 6r
Nel Taccuino
Senese Giuliano riservò solo al Colosseo uno studio veramente analitico,
rappresentandolo in pianta, alzato, sezione prospettica e veduta in
prospettiva. Mentre nella sezione, nell'alzato e nella pianta del sistema a
pilastri procedette in maniera di gran lunga più esatta di Francesco di
Giorgio, conferì alla pianta una forma quasi circolare -una correzione forse
consapevole, che è tanto più sorprendente se si pensa che già Alberti e Manetti
avevano accennato a piante ovali e Filarete o Francesco di Giorgio erano
arrivati sostanzialmente più vicini all'effettivo ovale della pianta. Nella
sezione Giuliano da Sangallo si accontentò di informazioni talmente sommarie
che difficilmente avrebbero incontrato l'approvazione di Leon Battista Alberti.
Anche nei suoi studi degli ordini antichi si avverte che gli insegnamenti
albertiani non gli erano familiari e che dovette elaborare autonomamente, passo
dopo passo, il vocabolario degli ordini antichi. Essendo i teatri di Roma
distrutti o fortemente danneggiati, il Colosseo inizialmente appariva spesso
come prototipo dell'intera categoria comprendente diversi edifici per
spettacoli e gare di lotta. Poi Francesco di Giorgio riprodusse il Teatro di
Ferento, Giuliano da Sangallo vide il Teatro, ben conservato, di Orange, Gian
Critoforo Romano dovrebbe aver visitato il teatro presso il Monte Zaro a Pola,
quasi intatto fino al XVII secolo.
C.L. Frommel, Sulla
nascita del disegno architettonico, in Rinascimento. Da Brunelleschi a
Michelangelo. La rappresentazione dell'architettura (catalogo della mostra
Venezia, Palazzo Grassi, 31 marzo- 6 novembre 1994), a cura di H. Millon e V.
Magnago Lampugnani, Milano, Bompiani, 1994, pp. 101-120, in part. p. 108.
Jacopo Ripanda, Traiano
informato del tradimento di Decebalo riprende la guerra, Londra, British
Museum, Department of Prints and Drawings.
La figura
maschile in primo piano, con la barba lunga e un rotulo semisvolto fra le mani,
che giunge improvvisamente -e la rapidità di movimento è sottolineata dai
panneggi agitati e dal mantello svolazzante sulle spalle- fra due gruppi di
personaggi seduti, sembrerebbe adatta ad impersonare il messaggero che porta a
Roma con la massima celerità possibile la notizia del tradimento di Decebalo.
Il suo sguardo incontra quello della
figura a destra seduta su un podio decorato: secondo questa lettura, potrebbe
trattarsi di Traiano, l'imperatore incoronato di alloro per la recente vittoria
nella prima guerra dacica, che lo ascolta con preoccupata attenzione. Alle sue
spalle una folla composita assiste all'avvenimento: da destra si scorge un
anziano togato, un militare con un'insegna e un gruppo di personaggi, fra i
quali spicca una figura femminile con il seno scoperto e un bambino tenuto per
mano. Potrebbe trattarsi, come per il giovane alla sua destra con le mani
chiaramente legate dietro alla schiena, di un ostaggio di rango condotto a Roma
dopo la fine della prima guerra dacica; la presenza di questa prigioniera al
cospetto dell'imperatore richiama subito alla mente un passo della Storia
Romana di Cassio Dione, là dove lo storico antico ricorda fra le cause della
prima vittoria conseguita da Traiano in Dacia l'espugnazione di alcune fortezze
montane e la cattura della sorella di Decebalo (LVIII, 9, 4): ma se questo
brano non sembra che fosse noto nel primo Cinquecento, la presenza di questa
figura femminile può forse essere imputata alla conoscenza di una scena della
Colonna Traiana. Altri particolari di questo foglio trovano un significato
coerente ricorrendo a questa chiave di lettura "traianea": così, il
Colosseo sullo sfondo sembra voler alludere ai giochi gladiatorii offerti da
Traiano al popolo di Roma per festeggiare il felice esito della prima guerra
dacica; e così, la piccola figura a sinistra lanciata al galoppo su un cavallo
impennato potrebbe accennare all'evento ricordato nella seconda parte
dell'iscrizione ("...iterum Traianus in eum arma capit") e cioè alla
pronta ripresa della guerra da parte dell'imperatore, nuovamente riconoscibile
per la corona d'alloro sulla testa. Due figura, nell'angolo inferiore del
disegno, si staccano dal consesso di personaggi che, con attenzione e stupore,
assistono all'arrivo del messaggero dalla Dacia: si tratta, con ogni
probabilità, di altri due ostaggi condotti a Roma al termine della prima
guerra, colti in un atteggiamento di mesta rassegnazione.
V. Farinella, Archeologia
e pittura a Roma tra Quattrocento e Cinquecento, Torino, Einaudi, 1992, pp.
106-107.
Domenico Beccafumi (Siena, 1484- 1551),
La storia di Papirius, olio su legno, 74 x 137,8 cm, 1520 circa, London National Gallery.
This unusual subject has recently been identified as the story of the
boy Papirius, who accompanied his father to the senate, and was sworn to
secrecy concerning the debate: Questioned by his mother (left), he claimed they
had discussed whether it would be better for men to have two wives, or women
two husbands. The next day, she rallied the matrons of Rome to petition the
senate that women might have two husbands, The senators were astonished and
outraged until Papirius intervened to unravel the mistery (centre).
The jovial classical subject is of a kind favoured for the decoration of
domestic interiors in the Renaissance period. Beccafumi included many
identifiable Roman monuments among which are the Colosseum (centre) and Castel
Sant'Angelo (right). (dal sito della National Gallery di Londra).
Maerten Van
Heemskerck,
Autoritratto con il Colosseo sullo sfondo, Cambridge, Fitzwilliam Museum
Questo autoritratto
dell'artista olandese Maerten Van Heemskerck mostra come lo status della figura
professionale del pittore fosse cambiata a cominciare dal XV secolo. Non semplicemente impiegato per lavori su
commissione, l'artista rivela qui una crescita di consapevolezza del proprio
ruolo dipingendo se stesso come soggetto principale dell'opera.
L'orgoglio di
Heemskerck e l'espressione del viso dominano lo sfondo. Veste un abito sobrio e
ci guarda direttamente negli occhi. L'impressione è di avere davanti un
intellettuale, qualcuno che lavora con la sua mente oltre che con le sue
mani.
Nel 1532 Heemskerck
viaggiò alla volta dell'Italia e trascorse diversi anni a Roma.
Molte incisioni
vennero derivate da questi disegni, e i lavori romani di Heemskerck divennero
tra le principali fonti iconografiche per gli artisti del Nord Europa che non
affrontarono direttamente il viaggio in Italia. Nel tardo '500, molti Olandesi
conobbero Roma attraverso gli occhi di Heemskerck.
Questo dipinto fu
realizzato 16 anni dopo il ritorno dell'artista dall'Italia.
In lontananza, seduta
su di un masso posizionato fra il primo piano e l'anfiteatro, si vede un uomo
intento a schizzare l'architettura. La sua lunga barba
scura è la stessa portata dallo stesso Heemskerck.
Così l'artista ha
dipinto se stesso due volte, in due diversi ruoli: come diligente lavoratore e
come fiero artista. E ancora una volta come artista consapevole di sè stesso si
raffigura come creatore del dipinto, mostrandone la qualità di esecuzione.
E' notevole che
l'angolo sinistro del cartellino su cui Heemskerck ha formato e datato il
dipinto, è oscurato dalla sua tunica nera.
Ci troviamo di fronte a un dipinto nel dipinto, e il pittore si pone
davanti ad una immagine che probabilmente intende sottolineare il suo
contributo all'arte. L' autoconsapevolezza dell'artista è ancora più esplicita
in una incisione del Fitzwilliam Museum nella quale Heemskerck pone in
comparazione se stesso con Apelle, il grande artista della Grecia antica che
fin dai Romani è stato ritenuto il pittore per eccellenza.
Jan o Lucas van
Doetechum, Caccia al toro tra le rovine di un anfiteatro, 1552
circa, incisione, 37,4x 50,4 cm, Iscrizione, in alto "Amphitheatrum sive
Arena", Los Angeles, The County Museum of Art, dono di Mary Stansbury
Ruiz, inv. M.88.91.305
Bibl.: Dutch and Flemish Etchings, Engravings, and Woodcuts, ca
1450-1700, Amsterdam, M. Hertzbergen 1949, Hollstein 593.
D. Fontana.
Domenico Fontana, Della
Trasportazione dell'Obelisco Vaticano, Napoli, 1604, parte II, fol. 18: qui
si apprende che l'architetto responsabile della riqualificazione urbanistica di
Roma al tempo di papa Sisto V (al secolo Felice Peretti), Domenico Fontana,
aveva previsto la sistemazione dell'Anfiteatro Flavio in una fabbrica tessile.
Santa
Maria della Neve al Colosseo
Questa
chiesa fa parte di quelle piccole opere cui è rivolta una parte dell’attività
edilizia romana della prima metà del XVIII secolo dedicata al la
ristrutturazione, con rettifiche anche al sito, degli antichi edifici religiosi
di modeste dimensioni, secondo lo stile architettonico del “rococò romano”. La
storia di questa fabbrica ha inizio già nel XII secolo quando è ipotizzabile,
sul luogo dell’attuale, l’esistenza di una piccola chiesa. Le prime indicazioni
certe sulla sua presenza si hanno solo nella seconda metà del Cinquecento quando nelle piante di
Roma è indicata in questa zona una chiesa con il nome di “S. Andrea” che diventa,
nella cartografia del secolo successivo, “S.
Andrea de Portugallo”. Agli inizi del XVII secolo la chiesa, con un
fabbricato congiunto, viene concessa all’ “Università dè Rigattieri dè Roma”
che al vecchio titolo di Sant’Andrea aggiunge quello di San Bernardino da
Siena, suo protettore. La ricostruzione del piccolo complesso religioso, a
seguito di tale evento, viene documentata dalle guide del tempo e da alcuni
documenti di archivio senza però elementi sicuri sull’esecutore dell’opera.
Nella pianta di Roma del Nolli del 1748 il nuovo complesso appare compiuto con
un diverso orientamento rispetto alla chiesa precedente: la nuova infatti è
posta quasi in asse con la via del Colosseo e occupa con il fabbricato
adiacente uno spazio triangolare in punta all’isolato. Come progettista della
nuova chiesa vengono indicate tre possibili personalità del primo Settecento
romano: Carlo Fontana (1634-1714), il figlio nonché allievo Francesco
(1668-1708), e Giuseppe Sardi (1680-1753); le prime due attribuzioni si
qualificano entrambe convincenti. Alla
fine del XVIII secolo, con l’occupazione francese, la chiesa viene abbandonata.
Nella prima metà dell’Ottocento l’Arciconfraternita del Santissimo Sacramento
si trasferisce nella chiesa che muta di conseguenza il titolo in Santa Maria ad
Nives. Tra i lavori di restauro che
hanno interessato il fabbricato negli anni 1960-1980, riveste
particolare importanza il cosiddetto “taglio Massari” per il risanamento
dell’umidità per capillarità. La facciata, caratterizzata in pianta da tre
curve, concava-convessa-concava, è stata oggetto di un rilievo diretto che ha
consentito la verifica della natura delle stesse, supposte archi di
circonferenza, e quindi la determinazione dei rispettivi centri di curvatura.
Camilla
Capitani, Santa Maria della Neve al Colosseo. Dal primo insediamento al
prospetto settecentesco, in Bollettino d’Arte, LXXXVIII, 2003,
aprile-giugno, fasc. 124, pp. 67 e segg.
L'anfiteatro
Flavio e la chiesa dedicata ai Santi Martiri: l'Anno Santo del 1750
Rispetto al Pantheon,
al tempio di Antonino e Faustina e alle terme di Diocleziano, la storia del
Colosseo cristiano inzizia assai tardi: con la protesta, vinta, da quanti nel
1671 impedirono che l'arena fosse concessa dal Capidoglio per uno spettacolo di
combattimento di tori. Alcuni studiosi hanno evidenziato l'importanza
attribuita da quel momento in poi alle memorie cristiane collegabili al
monumento, e hanno così ricostruito la sequenza delle tre proposte presentate
di lì a poco per erigere una o più chiese all'interno dell'arena: due progetto
alternativi presentati intorno al 1675, conosciuti da sole fonti manoscritte
delle quali una fa il nome di Bernini, e il noto progetto elaborato da Carlo
Fontana tra il 1707 e il 1713 e pubblicato a stampa nel 1725. Nessuno dei
progetti fu mai preso seriamente in considerazione; tracce di una continuità di
intenti nel voler rendere palesemente consacrato lo spazio dell'arena del
Colosseo perdurano tuttavia negli stessi anni attraverso la realizzazione di
alcuni provvedimenti auspicati in occasione dell'Anno Santo del 1675: per
intercessione del carmelitano Angelo Paoli, intorno al 1714 sono stabilite le
stazioni di una Via Crusis; l'arena è chiusa al passo carrabile e il suo
accesso, proibito la notte, viene limitato a due soli ingressi, sormontati da
segnali che indicano le memorie sacre ivi protette: affreschi rappresentanti
scene di martirio e iscrizioni dedicatorie dipinte. Nuovi segni che vanno ad
aggiungersi al piccolo oratorio situato entro l'arena, in un fornice attiguo
all'ingresso verso San Giovanni in Laterano, esistente sin dal Medioevo,
restaurato appena nel 1622 e stabilmente abitato da un eremita.
A questa situazione
consolidata, l'attività pastorale di padre Leonardo da Porto Maurizio svolta
durante il pontificato do Benedetto XIV doveva portare un nuovo slancio, volto
a rinvigorire la pratica della Via Crucis nell'arena del Colosseo e, di
conseguenza, a mettere di nuovo in primo piano le memorie sacre connesse
all'anfiteatro. La storia della predicazione a Roma di padre Leonardo, e quanto
è stato effettivamente realizzato nel Colosseo prima e dopo la sua morte (1751)
sono argomenti ben noti. L'anno Santo del 1750 figura come momento finale di
una lunga storia, perché è da considerarsi l'occasione propizia per rendere
finalmente compiuti i precedenti e reiterati tentativi di rendere stabilmente
consacrato lo spazio interno del Colosseo. Ne l'Idea di fondare nel Colosseo
una Congregazione o sia Compagnia laicale si apprende che il dedicatario era il
marchese Alessandro Gregorio Capponi, il quale si proponeva di fabbricare nel
Colosseo "una più ampla e ornata chiesa", e di "rinnovare nel
circuito di mezzo le 14 nicchie della via Crucis", e ancora di
"ristorare alcune parti de' portici, e delle antiche
scalinate". Tre anni dopo, può leggersi la prima menzione di un tale
proposito registrata agli atti della Camera Capitolina: il 3 dicembre del 1749
è presentata la "supplica delli
deputati della nuova chiesa e via Crucis nel solo dentro il Colosseo". Pochi
giorni dopo di legge che Benedetto XIV ha nominato il marchese Pietro Lucatelli
-succeduto alla morte di Capponi (dicembre 1746) nella carica di Custode del
Museo Capitolino- con il compito di assistere all'impresa; il 12 dicembre
"fu tenuto congresso con i Conservatori" al fine di "concedere
la facoltà di edificare la chiesa e le 14 cappellette"; ancora il giorno
dopo, il Fiscale si incontra con il cardinale Valenti per "la nuova
fabrica della Chiesa e cappellette nel Colosseo", prima dell'udienza
pontificia ove i Conservatori presentano il loro assenso alla richiesta
autorizzazione. Da altre fonti, è noto che padre Leonardo da Porto Maurizio il
giorno 25 gennaio 1750 ottiene, con rescritto di Benedetto XIV,
l'autorizzazione a fare rinnovare le 14 stazioni, precariamente istituite nel
1714. (si veda la tela dell'artista danese Christoffer Wilhelm Eckersberg, La
processione della Via Crucis al Colosseo, del 1815-1816, conservato a
Copenaghen, Den Hirshsprungske Samling, inv. 109, riprodotta più oltre.
Le edicole della Via Crucis furono
costruite nel corso del 1750, in sostituzione dei rozzi affreschi dipinti nelle
arcate più basse dell'interno dell'anfiteatro. Le nuove stazioni -in probabile
ottemperanza alla necessità di salvaguardare la fabbrica antica- furono
edificate come costruzioni a sé stanti; il loro autore individuato
nell'architetto Paolo Posi; i relativi affreschi sono opera di Luigi Garzi.
All'atto della loro consacrazione, tenutasi negli ultimi giorni dell'Anno
Santo, nel dicembre 1750, le cerimonie svoltesi permettono di dedurre che i diversi
fautori del Colosseo cristiano abbiano trovato una ricomposizione unitaria: la
prima cerimonia ha avuto luogo in Sant'Andrea della Valle, chiesa madre dei
Teatini, tra i quali si era distinto, all'epoca di Bernini, padre Carlo Tommasi
e, sotto il pontificato di Benedetto XIV, il nipote Giuseppe Maria. La
benedizione delle edicole e l'erezione della croce nel Colosseo ha luogo, in
nome del papa, ad opera dell'arcivescovo di Roma, Ferdinando M. De Rossi. Al
francescano padre Leonardo è affidato il sermone principale. Ciò che però è del
tutto scomparso dai documenti e dalle minuziose cronache delle cerimonie
religiose è ogni riferimento all'auspicato restauro delle arcate del Colosseo
e, soprattutto, al proposito di erigere una nuova chiesa all'interno dell'arena.
La spiegazione può
trovarsi, solo un mese dopo, nelle pagine del Diario tenuto dal Fiscale
Capitolino: il 12 gennaio è presentato "il ricorso de' Letterati d'ogni
nazione per impedire la deformazione del Colosseo con la nuova chiesa
destinata". A un mese dalla conclusione dell'Anno Santo, qualcuno si è
fatto latore in Campidoglio di una lettera che, a nome dell'opinione pubblica
d'oltralpe, ha chiesto di fermare la costruzione della chiesa al fine di
preservare l'integrità del monumento antico. Il progetto della chiesa non è
stato reperito e, forse, non è stato mai del tutto neppure elaborato; della
lettera che ne chiede la sospensione, conosciamo solo quanto abbiamo
trascritto; che, infine, tale protesta sia stata recepita è da noi
tentativamente dimostrato con il prosieguo della vicenda -che vede l'erezione
della chiesa collegata alla pratica della Via Crucis in altro luogo. Ciò non
toglie che, un'azione così forte e imprevista, meriti di essere più
attentamente approfondita sia nel merito, che nell'individuazione dei possibili
responsabili.
Dall'unica e avara
descrizione della chiesa che è contenuta nel testo di Marangoni (Delle
memorie sacre, e profane dell'Anfiteatro Flavio di Roma volgarmente detto il
Colosseo...,Roma, 1746) sappiamo solo che questa avrebbe dovuta essere
fabbricata "sopra il piano, o loggia, ultimamente fatta ristorare",
mentre si specificava esplicitamente che non era prevista demolizione
dell'oratorio esistente. Posto che gli ultimi (e unici) restauri all'interno
del Colosseo erano stati effettuati nel corso del 1742, oltre che nei muri di
cinta, anche "nella loggia e piano superiore della chiesa, e gl'archi
d'ingresso verso San Giovanni in Laterano", è possibile pensare che la
progettata nuova chiesa auspicata dal Marangoni dovesse essere costruita nelle
adiacenze dell'oratorio esistente, forse sul lato simmetrico rispetto al
passaggio verso San Giovanni in Laterano, se non sul primo ripiano superiore
della gradinata ("sopra il piano"), addirittura immediatamente al di
sopra dell'oratorio ("piano superiore della chiesa").
L’anfiteatro Flavio nei dipinti
Viviano Codazzi (1603- 1672), Capriccio
con colonne doriche e il Colosseo, ca. 1655, olio su tela, 75 x 90 cm,
London, Chiswick House, inv. no. 88003069 (Fototeca Zeri)
Gaspar van Wittel, Veduta del
Colosseo e dell'arco di Costantino, 1711, olio su tela, 47x 107 cm, Torino,
Galleria Sabauda, inv. 833. Iscrizioni: firmato sul masso nell'angolo in basso
a destra: "Gasparo van Witel Roma".
Questa veduta e il
suo pendant -Il fianco del Colosseo, la meta Sudante e l'arco di
Costantino, firmato e datato 1711- si trovavano nel Palazzo Reale di Torino
almeno dal 1754, anno in cui sono espressamente ricordate, insieme a una veduta
napoletana della Darsena, nella Descrizione manoscritta dei beni del palazzo.
Le tre opere sono oggi conservate nella Pinacoteca Sabauda. Di questa Veduta
del Colosseo sono note otto diverse redazioni: sette sono state pubblicate
nella nuova redazione della monografia di Giuliano Briganti nel 1996, mentre
una, inedita, di antica provenienza olandese, è stata venduta da Christie's a
Londra (16 dicembre 1998, n. 69). La maggior parte di queste versioni fu
eseguita per i viaggiatori settecenteschi, quei "grandturisti" d'Oltralpe
che ne erano i destinatari più naturali. Come per il turista contemporaneo
anche per il viaggiatore sei e settecentesco l'anfiteatro Flavio era infatti
l'edificio più noto dell'antichità. E' l'idea stessa di Roma a identificarsi
con il Colosseo. L'immagine di questo monumento, oggi così banalizzata dalle infinite
riproduzioni, nasce e si diffonde presto proprio a partire da questa invenzione
di Gaspar van Wittel, un pittore non a caso straniero. Naturalmente disegni e
dipinti del Colosseo esistevano fin dal Cinquecento, ma nessun artista ne aveva
fatto l'esclusivo protagonista di diversi quadri. La veduta è presa dall'orto
dei frati di Santa Francesca Romana, ove sorgevano le rovine del Tempio di
venere e Roma, luogo che corrisponde esattamente alla fine dell'attuale via dei
Fori Imperiali. Tra il Colosseo e l'arco di Costantino, dietro la Vigna
Paganica, si vedono i ruderi della Curia Ostilia con il giardino del Noviziato
dei Missionari e il campanile e la chiesa dei Santi Giovanni e Paolo. Più a
destra le tre cappelle di San Gregorio al Celio. Davanti all'arco di Costantino
spunta la Meta Sudante, caratteristica fontana a forma di cono costruita
intorno al I sec. d.C. e demolita nel 1936. Oltre l'arco si vedono le due
arcate dell'acquedotto neroniano. A sinistra, sullo sfondo, si distinguono i
due campanili di San Giovanni in Laterano. In primo piano, il pittore, seduto
tra capitelli e rocchi di colonne, disegna accompagnato a un misterioso
assistente. L'altro cavaliere, in abito rosso, che reca in mano una cartella di
fogli potrebbe essere l'architetto Filippo Juvarra, con il quale, proprio in
quegli anni, Gaspar van Wittel si recava spesso a disegnare nei Fori.
L. Laureati in Il
Settecento a Roma, catalogo della mostra a cura di A. Lo Bianco e A. Negro,
Roma, Palazzo Venezia, 10 novembre 2005- 26 febbraio 2006, Cinisello
Balsamo/Milano, Silvana Editoriale, 2005, cat. 166, p. 269.
I Capricci di Giovanni Paolo Panini (per una ricca selezione di opere di questo artista ispirate alle rovine antiche di Roma, si veda il sito http://www.italianways.com/it/il-colosseo-nei-capricci-architettonici-di-pannini/ nel quale, tuttavia, mancano i riferimenti ai luoghi dove le opere sono conservate.
Giovanni Paolo Panini
(Piacenza,
1691- 1765), Paesaggio con rovine classiche e il Colosseo, olio su tela,
1738, 112x 100cm, Marble Hill House,
inv. no. MH93.
Giovanni Paolo Panini
(Piacenza,
1691- 1765), Vedute di Roma antica, olio su tela, 231 x 303 cm, firmato
e datato I. PAUL PANINI Romae 1758, Paris, Musée du Louvre, inv. R.F. 1944-21, entrato al museo per legato della principessa Edmond De Polignac, nata
Winnareta Singer (1944).
Giovanni Paolo Panini (Piacenza, 1691-
1765), Capriccio architettonico con il Colosseo, la Colonna Traiana, il
Marco Aurelio, il Tempio della Fortuna Virile e l'Arco di Costantino dietro il
Vaso Borghese del Louvre, 1735 ca., olio su tela, 70x103 cm, Piacenza,
Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza spa, già nelle collezioni Colombari e
Genero di Torino, poi in quella De Filippo a Milano.
cfr. Giovanni Paolo
Panini 1691-1765, a cura di F. Arisi, catalogo della mostra, Piacenza, Palazzo
Gotico, 15 marzo-16 maggio 1993, Milano, Electa, 1993, cat. 36, pp. 148-149.
Luigi Valadier (Roma, 1726-1785) e Cesare
Aguatti (attivo nella seconda metà del XVIII secolo), Cornice che
racchiude una Veduta del Colosseo, 1775-1780, bronzo e metallo dorato,
porfido, lapislazzuli, mosaico. Mosaico: 19,5 x 27,8 cm; cornice 34,8 x 34,9
cm; Parigi, Collezione M. e Mme Alain Moatti.
Questa cornicetta, di
grande eleganza e raffinatezza d'esecuzione, potrebbe a ben vedere essere
ascritta tra le opere eseguite da Luigi Valadier nel 1780 circa. I lavori di
Valadier intorno a questa data, in un periodo durante il quale l'argentiere era
all'apice della sua carriera, sono ormai nella maggio parte noti e bisogna
subito dire che per ora non esistono documenti che confermino l'attribuzione di
questo oggetto alla sua bottega, ma le somiglianze stilistiche con altre opere
sicuramente di mano dell'artista romano inducono a far rientrare la cornice
all'interno della produzione di Valadier. Quello che distingue infatti la
bottega Valadier dalle altre attive a Roma in questi anni è l'uso di svariati
materiali: pannelli di porfido e lapislazzuli talvolta insieme a oggetti di
scavo come si può vedere nel presente arredo impreziosito dall'inserimento nel
frontone di una moneta romana in bronzo raffigurante Vaspasiano, sotto il sui
regno fu edificato il Colosseo (qui riprodotto in micromosaico realizzato da
Cesare Aguatti). Più tardi Giacomo Raffaelli (1753- 1836) e altri artigiani
faranno lavori simili, ma fu Valadier il padre di questo gusto ch avrà le sue
più scenografiche realizzazioni nelle montature dei cammei antichi e in altri
oggetti preziosi destinati a ornare i Musei, Sacro e Profano, voluti da Pio VI.
(John Winter, in Il
Neoclassicismo in Italia. Da Tiepolo a Canova, catalogo della mostra
Milano, Palazzo Reale, 2 marzo- 28 luglio 2002, a cura di F. Mazzocca, E.
Colle, A. Morandotti, S. Susinno, Ginevra-Milano, Skira editore, 2002, p. 479
cat. VIII 19)
Luigi Mascelli (circa 1770- 1825), Placca
con veduta dell'Anfiteatro Flavio, Roma, inizi del XIX secolo, pasta di
vetro rossa, oro, mosaico minuto, 340 x
540 mm, Roma, Collezione L. Moroni.
La trama compositiva
mostra caratteristiche tipiche della prassi operativa che si configura proprio
agli esordi del XIX secolo. Alle regolari tessere quadrate, usate soprattutto
per definire l'aria, si affiancano particelle di smalto a filo d'erba,
circolari, ovoidali, rettangolari per dar corpo agli effetti di sfumato del
terreno, degli alberi, delle strutture murarie.
(Il Mosaico, a
cura di Carlo Bertelli, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, p. 278).
Hubert Robert (Paris, 1733- Paris
1808), Interno del Colosseo verso l'Arco di Costantino, 1759, 25 x 32
cm, New York, Metropolitan Museum of Art.
Hubert Robert (Paris, 1733- Paris
1808), Rovine romane col Colosseo, 1798, 50 x 59
Diversi anni dopo il
suo rientro a Parigi, Robert continuò a dipingere i monumenti della Roma
antica, che alla maniera del Pannini aggiunse la fantasia più accentuata. Le
tre colonne del Tempio dei Dioscuri, il Colosseo, il Tempio detto di Antinino e
Faustina, davanti al quale si vede chiaramente l'Ercole Farnese.
Hubert Robert (Paris, 1733- Paris
1808), Il Colosseo, olio su tela, 98 x 135 cm, 1762-73, San Pietroburgo,
Ermitage, già nella collezione dei Conti di Ferzen nella stessa San Pietoburgo
(1919).
Antonio Canal detto
il Canaletto,
Roma: il Colosseo, Penna e inchiostro bruno, acquerello grigio, 150 x
257 mm., Roma, Istituto Nazionale per la Grafica, inv. FN 507 (4143)
Cfr. Canaletto. Il
trionfo della veduta, a cura di B. Anna Kowalczyk, catalogo della mostra
Roma, Palazzo Giustiniani, 12 marzo- 19 giugno 2005, cat. 72, pp. 260-261.
Antonio Canal, detto
il Canaletto,
Roma: l'Arco di Costantino e il Colosseo, Penna e inchiostro bruno,
acquerello grigio su traccia di matita, contornato a penna e righello, 178 x
253 mm., Paris, Petit Palais, Musée des Beaux-Arts de la Ville de Paris, inv.
DDUT00976.
Cfr. Canaletto. Il
trionfo della veduta, a cura diB. Anna Kowalczyk, catalogo della mostra
Roma, Palazzo Giustiniani, 12 marzo- 19 giugno 2005, cat. 70, pp. 256-257.
Charles-Louis
Clerisseau,
(Paris, 28 agosto 1721- 9 gennaio 1820), Veduta del Colosseo, penna e
inchiostro, 149 x 360 mm, 1750, acquistato da Caterina II il 5 maggio
1780.
Carlo Labruzzi (Roma, 1748- 1817), Il
Colosseo visto dal Palatino, olio su tela, 77 x 126 cm, Puskin, Tsarskoje
Selo, Palazzo di Caterina, inv. ED-201-X
Sopravvissuta alle devastazioni
delle dimore dell'imperatrice Caterina II durante l'assedio di Stalingrado,
l'opera è una delle rare testimonianze di quella fortunata produzione di vedute
che fece di Labruzzi uno degli artisti più richiesti dai viaggiatori,
soprattutto inglesi.
Concepiti come
souvenir del Grand Tour, questi panorami di Roma si rifacevano a un
repertorio limitato, con soggetti e punti di vista obbligati che coincidevano
con le tappe degli itinerari turistici proposti dalle guide.
Benché legato alle
convenzioni iconografiche di una lunga tradizione, anche il pittore di vedute
lavorava dal vero per "aggiustare" la prospettiva, definire i
dettagli, captare l'apparenza delle forme nella luce di un'ora precisa del
giorno.
In questa smagliante veduta del
Colosseo, Labruzzi si è ritratto nel suo ruolo di artista reporter mentre
disegna davanti al monumento, da una delle terrazze naturali del Palatino. Gli
è accanto un gentiluomo che osserva con interesse il suo lavoro. Potrebbe
trattarsi di uno dei nobili "dilettanti" che costituivano la sua
abituale clientela. Anche la coppia elegante che passeggia tra le rovine dei
palazzi dei Cesari allude alle passeggiate romane che scandivano i rituali dei grand-tourist.
Quel labirinto di rovine che si
stendeva per un chilometro sul colle del Palatino era il punto di arrivo di una
delle più celebri promenades archeologiche della città, dopo la visita al
Foro e agli Orti Farnesiani. L'ora più propizia era quella del
tramonto:"La sera siamo andati nei giardini del Palatino...Lassù, sopra
una terrazza all'aperto e all'ombra di magnifici alberi, dove sono stati
disposti intorno capitelli ornati,...bassorilievi infranti e altri simili
avanzi, come altrove si usa collocare tavole, sedie e panche per qualche lieto
convegno all'aperto, abbiamo goduto a nostro talento una splendida serata"
(Goethe, Viaggio in Italia, settembre 1787). Da
lassù la vista spaziava sugli spiazzi erbosi che circondavano il lato sud del
Colosseo; a sinistra l'arco di Costantino, ancora in parte interrato, a destra
le terme di Traiano sullo sfondo dei monti Sabini. Per dare profondità alla
veduta, Labruzzi ha giocato sul contrasto tra la luminosità diffusa dei piani
lontani e il proscenio in controluce, dove le ombre lunghe del tramonto rendono
più intensi i colori autunnali della vegetazione cresciuta sulle rovine: ocra,
terre, rossi bruciati e verdi opachi, come quello delle agavi che compaiono a
contraddistinguere il luogo anche nelle vedute dei pittori inglesi, da
'Warwick' Smith a Towne, a Eastlake, che hanno ripreso il Colosseo dallo stesso
punto di vista. Labruzzi unisce a una descrittività di gusto hackertiano una
vivacità di tocco che caratterizza il suo stile anche nella tecnica prediletta
dell'acquerello. Nel XIX secolo il dipinto si trovava nel palazzo di Alessandro
a Tsarskoje Selo, costruito da Caterina II per il nipote, il futuro zar
Alessandro I. In seguito fu depositato all'Ermitage e all'inizio del XX secolo
è stato assegnato alle Collezioni storiche dei palazzi di Tsarskoje Selo.
E. Calbi,
scheda in Un paese incantato. Italia dipinta da Thomas Jones a Corot, a
cura di A.Ottani Cavina, catalogo della mostra Parigi, Galeries nationales du
Grand Palais 3 aprile- 9 luglio 2001/ Mantova, Palazzo Te, 3 settembre- 9
dicembre 2001, ed. italiana Milano, Electa, 2001, p. 7, cat. 2).
François-Marius
Granet (Aix-en-Provence,
1775- 1849)
«S’il est un monument de la Rome antique que Granet
affectionne particulièrement, c’est bien le Colisée.» (Denis Coutagne, François-Marius Granet 1775-1849. Une vie pour la peinture, Paris, Somogy éditions d'art, 2008, p. 155)
François-Marius
Granet (Aix-en-Provence,
1775- 1849), Veduta del Colosseo con il palazzo imperatori e
la piramide di Caio Cestio, 1802- 1810, olio su tela, 62,5 x 75 cm,
Aix-en-Provence, Musée Granet, inv. 866-1-4.
Nei suoi Mémoires
Granet ricorda come, giunto a Roma nel
luglio del 1802, decise "di cominciare con qualche studio della natura. Scelsi il Colosseo. Questo
monumento m'era apparso eccezionale per la sua forma straordinaria e per la
vegetazione che avvolge le sue rovine e produce contro il cielo un effetto
incantevole". SImbolo stesso di Roma, il Colosseo è il soggetto di
numerosi studi e dipinti di piccolo formato eseguiti nel primo decennio, che
mai rappresentano il monumento nella sua totalità ma sempre per frammenti,
talvolta utilizzati come terrazza da cui dipingere il paesaggio romano.
Adottando un punto di vista già sperimentato dal maestro Constantin, il dipinto
di Granet riprende, attraverso un'arcata interna parzialmente superstite del
secondo piano della zona sud del Colosseo, il panorama verso sud: il palazzo
imperiale del Palatino sulla destra; le arcate dell'acquedotto neroniano che
attraversano la valle; la piramide di Caio Cestio fuori porta San Paolo; il
complesso di San Saba sull'Aventino.
Nei dipinti del primo
decennio, ignorando le visioni favolose di Pannini o quelle tormentate di
Piranesi, Granet esalta le reliquie architettoniche d'una Roma divenuta
'sublime' nelle sue rovine. Il Colosseo, deserto e desolato, s'impone come il
punto di riferimento primordiale della Roma di Granet, la cui grandezza risiede
nella sua capacità di esprimere una gloria antica o mitica nell'attuale stato
di degrado. La 'profanazione' denunciata dal pittore nel 1829 davanti ai lavori
di restauro effettuati al Colosseo conferma che l'interesse non è per l'oblio
stesso della storia che questo incarna nel suo stato di rovina. Nuova rispetto
al 'rovinismo' tardosettecentesco caro a Diderot è, nel confronto dell'uomo con
la natura, la romantica desolazione del pittore. le rovine romane, che
conservano misteriosamente il ricordo di un passato divino ed eroico, diventano
luoghi per eccellenza di un nuovo modo di guardare, grazie al quale il mondo
antico ridiventa natura: Questo sentimento di Roma come Natura e di Natura come
Arte è ispirato da Chateaubriand, che esaltava nel 1804 la "inconcepibile
grandiosità" della campagna romana, una terra "naturalmente"
antica, che "dà forti emozioni". A Roma fino al 1824, Granet svolge
un ruolo di guida nell'ambito della pittura di paesaggio, imponendosi presto su
Boguet, Bidauld, Denis, Chauvin e "tutti coloro che hanno i mezzi di
vivere in questo paradiso". La sua meditazione silenziosa sulle rovine di
Roma si oppone, nel primo decennio, al fracasso delle guerre che devastano
l'Europa. Afflitto dall'occupazione francese, Granet scriverà nel febbraio del
1810 di non ritrovare più la sua "Roma silenziosa": il suo
"carattere religioso" era scomparso insieme al suo fascino. Roma è
trasfigurata dalla sua vocazione fantasmagorica e romantica che sostituisce ai
disegni al tratto di eredità davidiana una scrittura di ricerche luministiche e
atmosferiche. I suoi frammenti ritagliati dal vero, innovativi e sfrontati
nella stesura, nei tagli, e nella mancanza di figure e di eventi, si pongono
come tappa fondamentale della via percorsa fra il classicismo di Valenciennes e
il primo viaggio in Italia di Corot. Pittore del paesaggio romano, Granet si
appropria di molteplici tradizioni: vedutismo, plein-airisme,
classicismo, toccando la Roma antica e la Roma cristiana. Al 'genere delle
rovine' preferisce 'quello degli interni'. Dalla lettura dei Martyrs di Chateaubriand si
ispira per creare immagini di pietà moderna e della religione dei primi
cristiani, venendo consacrato nel secondo decennio con il Coro dei
Cappuccini come il pittore della vita monastica e conventuale.
La Roma
cristiana e la Roma pagana non sono ignare l'una dell'altra e il messaggio è
affermato dalla Veduta da un'arcata del Colosseo (Parigi, Louvre), inviata al
Salon del 1806, che rappresenta in primo piano un'edicola delle stazioni della
Via Crucis fatte realizzare da Benedetto XIV, poi distrutte nei deplorati
restauri. Il dipinto ricordava come, con la consacrazione nel 1744 alla
Passione di Gesù, il Colosseo, "luogo per la persecuzione e la leggenda
avevano bagnato del sangue di tanti martiri", era stato "messo sotto
la salvaguardia della religione".
A. Imbellone, in Maestà
di Roma da Napoleone all'unità d'Italia. Universale ed Eterna Capitale delle
Arti, a cura di S. Susinno, S. Pinto, L. Barroero e F. Mazzocca, Milano,
Electa, 2003, p. 85, cat. I.7.
François-Marius
Granet (Aix-en-Provence,
1775- 1849), Nel Colosseo, un pittore al lavoro, olio
su carta applicata su tela, 28,5 x 22,5 cm, Collezione privata.
Ha ventisette anni il pittore
provenzale Francois-Marius Granet quando nel 1802, da Parigi e dall'atelier di
David, arriva finalmente a Roma per rimanervi più di vent'anni. "Decisi di
cominciare con qualche studio d'après nature. Scelsi il Colosseo. Quel
monumento mi era parso così bello per la forma architettonica e per il verde
che avvolgeva le rovine e creava un effetto incantevole contro il cielo. Vi si
trovano la violacciocca gialla, l'acanto con i suoi steli bellissimi e le
foglie dentellate, il caprifoglio e le viole; insomma una tale quantità di
fiori da poter comporre un trattato di botanica" (Granet, Mémoires, cap.
IV). Scegliere il Colosseo non era un'idea originale, nuovo però era il
ribaltamento prospettico e nuova era la colorazione romantica: le violacciocche
e l'acanto, il caprifoglio e le viole, dimenticando l'anfiteatro imponente.
L'Antico e la Storia riemergevano come Natura nello splendore di un luogo non
ancora bonificato dagli archeologi né scarnificato dai diserbanti. Ecco dunque
il pittore al lavoro, come tante volte ricorda nei suoi Mémoires:
parasole, sgabello, cartella sulle ginocchia, perduto nel Colosseo fra i
muschi, le pietre, le arcate crollanti.
Il Colosseo, sentito come luogo
struggente e sentimentale. E tante volte dipinto, come documenta anche un
altro bozzetto del museo di Aix-en-Provence, con il pittore che se ne va, dopo
avere disegnato fra i ruderi, cilindro, portfolio, bastone da passeggio. Del
grandioso anfiteatro romano, Granet amava stralciare qualche frammento, che
riversava nella sua scrittura corsiva. L'impaginazione, ben collaudata, è la
stessa dei quadri d'interni ispirati alle solitudini claustrali e monastiche
che gli diedero la celebrità ("Granet peintre des Capucins" come si
vede dal dipinto di Collezione privata): un'arcata in primo piano
in penombra che incornicia saldamente l'immagine; poi la luce che dilata lo
spazio e apre sulla lunetta azzurra del cielo. A. Ottani Cavina scheda in Un
paese incantato. Italia dipinta da Thomas Jones a Corot, a cura di A.Ottani
Cavina, catalogo della mostra Parigi, Galeries nationales du Grand Palais 3
aprile- 9 luglio 2001/ Mantova, Palazzo Te, 3 settembre- 9 dicembre 2001, ed.
italiana Milano, Electa, 2001, p. 20, cat. 10.
François-Marius
Granet (Aix-en-Provence,
1775- 1849),
Pioppi visti da un'arcata del Colosseo, Aix-en-Provence, Musée Granet.
François-Marius
Granet (Aix-en-Provence,
1775- 1849),
Monaci fra le rovine del Colosseo, Collezione privata.
Jean-Auguste
Dominique Ingres,
Ritratto di Joseph-Antoine Moltedo, 1810 circa, olio su tela, 75,3x 58,1
cm, New York, Metropolitan Museum of Art.
Questo, insieme al Ritratto
di Charles Cordier (1811, Parigi, Louvre) dello stesso Ingres, si
ricollegano alla formula inaugurata con il ritratto di Granet (conservato ad
Aix-en-Provence, Musée Granet): un primo piano sullo sfondo di un paesaggio
italiano. Grazie alla precisazione fornita dalla figlia di Cordier al momento
di donare al Louvre il ritratto del padre, abbiamo la certezza che Granet fu
anche in questo caso l'autore dei due paesaggi, il Colosseo in un caso e il
tempio della Sibilla a Tivoli nell'altro. La veridicità di questa precisazione
non può essere messa in dubbio, poiché una confessione del genere non serviva
certo ad aumentare il valore del quadro. D'altro canto, la perfetta analogia di
stile non lascia dubbi sulla paternità di un unico artista per i tre paesaggi.
Moltedo era direttore delle poste di Roma. Ingres lo ritrae insistendo
sull'opposizione dei materiali e ricorrendo ad una scenografia in cui le
piccole pennellate di azzurro caldo si armonizzano con i riflessi giallastri
del cappotti di renna. Il ritratto diventa così gioviale, laddove il modello
perdeva in eleganza naturale.
Jean-Auguste
Dominique Ingres, Portrait de
Granet, 1809, cm 74,5 x 63,2, Aix-en-Provence, musée Granet.
Jean-Baptiste Camille
Corot,
Roma, il Colosseo dalle arcate della basilica di Costantino, olio su
carta applicata su tela, 23,2 x 34,8 cm, scritta in basso a sinistra: "vente
Corot" (sigillo della vendita postuma del 1875); datato in basso a destra: "Xbre
1825", Parigi, Musèe du Louvre.
Quando arriva a Roma, nel 1825,
Corot è reduce da un triennio di studi nel corso del quale ha approfondito la
tecnica della pittura a olio, il disegno dei maestri, i precetti teorici del
paesaggio e la rappresentazione della natura en plein air. Grazie a
Michallon e a Jean-Victor Bertin, ha acquisito un'innegabile abilità nel
trattamento della luce, dello spazio e dei volumi; lo dimostrano alcuni studi
di paesaggio dipinti a Parigi, in Normandia o nella foresta di Fontainebleau
prima della sua partenza. In Italia gli insegnamenti dei suoi maestri saranno
messi alla prova nel rapporto diretto, quotidiano e radicale con la natura
rigogliosa e mutevole della penisola; un confronto che si rivelerà fondamentale
per i successivi orientamenti di tutta la sua carriera di paesaggista.
Il soggiorno non era
però iniziato nel migliore dei modi, a causa del maltempo che gli aveva impedito
di lavorare durante tutta la prima metà di dicembre:" Non posso parlare
del clima di Roma; da quando sono qui, piove sempre. Ma questo non mi stupisce;
me l'aspettavo...", scrive al suo compagno Abel Osmond. Ma fin dalla prima
schiarita, fedele alla tradizione, Corot dà immediatamente inizio alle sedute
di lavoro davanti alle rovine romane, scegliendo come soggetti i dintorni del
Foro e del Colosseo, per poi spostarsi verso la periferia della città. Proprio
nel dicembre del 1825, secondo l'indicazione della data, Corot dipinse questo
studio con il Colosseo inquadrato dagli archi della basilica di Costantino,
archi che nascondendo parzialmente l'antico anfiteatro, definiscono la
struttura geometria e tripartita della veduta. Ma risale probabilmente allo
stesso periodo anche lo studio realizzato dal punto di osservazione opposto,
con la basilica di Costantino vista dal Colosseo. Le due opere rievocano le
stesse atmosfere umide e nuvolose e identifica è anche la gamma cromatica
volontariamente fredda, basata sui toni ocra, marrone e verde.
Sebbene il soggiorno
sia solo all'inizio, questi due studi rivelano la maturità artistica di Corot,
la sua consumata abilità nella scelta dell'inquadratura, ma anche la sua cura
nel trattamento della luce e delle ombre che definiscono i volumi
architettonici.
Il motivo delle
arcate, di grande efficacia plastica e utile a suggerire un'impressione di
profondità, era già stato utilizzato da Corot in altri dipinti precedenti -Parigi,
il vecchio ponte Saint-Michel (Beauvais, Musée Départemental de l'Oise) e
soprattutto Moret (Seine-et Marne), gli archi di ponte- prima di essere
sfruttato nuovamente durante il soggiorno in Italia (Rovine del tempio Steatore
a Roma, collezione privata) e infine nelle opere più tarde (Il castello di
Maintenon, collezione privata). Il pittore ha chiaramente ripreso
un'inquadratura ispirata alle opere dei suoi maestri e predecessori, facendo
riferimento ai disegni di Michallon con La basilica di Costantino (Parigi,
Louvre). Anche quest'ultimo, del resto, aveva utilizzato un'analoga struttura
compositiva nelle Volte del Colosseo al tramonto e nella graziosa
rappresentazione di Villa Medici vista attraverso un portico entrambe a
Orléans (Musée des Beaux-Arts). Il motivo si ritrova poi, in questi anni, in
altri colleghi di Corot. La novità di Corot sta nel modo di concepire
un'immagine di grande lucidità e realismo, immune da effetti o artifici
pittoreschi, privilegiando la densità della materia pittorica, i giochi
d'ombra, i contrasti tra la fluidità del cielo e la solidità delle
architetture. Lontano dalla veduta turistica, e da ogni indulgenza
estetizzante, questo studio preannuncia pienamente gli esiti futuri del lavoro
di Corot in Italia, la sua costante vocazione alla sintesi e al realismo.
V. Pomarède, scheda
in Un paese incantato. Italia dipinta da Thomas Jones a Corot, a cura di
A.Ottani Cavina, catalogo della mostra Parigi, Galeries nationales du Grand
Palais 3 aprile- 9 luglio 2001/ Mantova, Palazzo Te, 3 settembre- 9 dicembre
2001, ed. italiana Milano, Electa, 2001, p. 191, cat. 115.
Jean-Baptiste Camille
Corot,
Studio del Colosseo o Veduta del Colosseo dai giardini Farnese o Il
Mezzogiorno, marzo 1826, olio su carta incollata su tela, 30 x 49 cm,
Firmato e datato in basso a destra (iscrizione forse apocrifa secondo Hélène
Touissant): Corot mars 1826.
"Per
quindici volte di seguito torna a sedersi, alla stessa ora, nello stesso posto
e, su un piccolo riquadro di tela, appena tre volte più grande della mano, descrive
pazientemente nei dettagli lo splendore del luogo che ha scelto come modello.
Di fronte a lui il Colosseo si erge al centro dell'antica città e la sua massa
rossa e calda domina l'orizzonte blu delle montagne. Se la luce cambia, a
questo studio ne sostituisce un altro e senza mai lasciare la terrazza dei
giardini Farnese, si limita a cambiare il proprio punto di vista e prosegue
ostinatamente nel compito che si è prefisso". Questa descrizione fatta da
Etienne Moreau-Nélaton delle circostanze relative alla realizzazione di una
serie di tre studi dipinti da Corot nei giardini Farnese a Roma è basata su
testimonianze dirette di Alfred Robaut e di Théophile Sylvestre, che si
limitarono ad annotare i ricordi dell'artista stesso. Non sembrano perciò
sussistere dubbi circa l'esecuzione dal vero e l'orientamento topografico di
questi studi; tuttavia gli scopi del lavoro di Corot e le motivazioni che lo
spinsero a dipingere tali opere in serie non sono ancora stati completamente
chiariti.
Dai giardini Farnese (Orti
Farnesiani), edificati nel Cinquecento sopra l'antico palazzo di Tiberio e
fonte d'ispirazone per molti pittori di vedute del Settecento, si gode la più
bella vista su quel sito unico costituito dal Foro romano e dalle rovine che lo
circondano, A pochi passi dal Palatino, dall'arco di Costantino e dal Colosseo,
questa collina offre una splendida veduta di Roma, "la città per
eccellenza", le cui rovine antiche avevano spinto Valenciennes a scrivere
che " la Roma moderna non è che l'ombra della Roma antica". L'artista
raccomandava fra l'altro ai suoi allievi di seguire le tracce di Claude Lorrain
(Veduta di Campo Vaccino, Parigi, Musée du Louvre) e di recarsiin quel luogo
per dipingere la città. Lui stesso mise in pratica tale suggerimento: presso il
Louvre si trova infatti una Veduta del Colosseo da lui dipinta proprio
dallo stesso punto di vista di quella eseguita da Corot.
Qualche anno più tardi, intorno al
1822, Michallon, allievo di Valenciennes e professore di Corot, dipinse
anch'egli (sebbene forse in studio, al suo ritorno a Parigi) una Veduta del
Colosseo, dalla stessa angolazione. E' quindi probabile che Corot abbia
avuto modo di studiare durante le ore di lavoro presso l'atelier del maestro
tale studio del Colosseo. D'altra parte il sito era, sin dalla metà del
Settecento, meta prediletta dagli artisti che soggiornavano a Roma, basti
citare fra gli altri alcuni pittori vicini a Corot, come Bidauld o Bertin, che
scelsero anch'essi questo luogo per eseguire alcuni studi.
Corot, dunque, non
faceva che seguire la tradizione quando nel marzo 1626, dopo aver lasciato
Piazza di Spagna, dove risiedeva, si recava a lavorare davanti al Foro e al
Colosseo visti dall'alto dei giardini. Forse gli capitava d'incontrare alcuni
dei suoi colleghi a Roma in quel periodo, come il giovane Bracassat, ospite
della Villa Medici in qualità di vincitore del secondo Prix de Rome per il
paesaggio storico, o il tedesco Ernst Fries che proprio allora dipingeva come
lui la veduta dai giardini Farnese. Sembra già più originale la decisione di
Corot di iniziare, con tutta probabilità contemporaneamente, tre studi dal
vero, eseguiti da tre angolazioni diverse e a tre diversi momenti del giorno.
E' vero anche che, sin dal 1708,
Roger de Piles consigliava ai giovani allievi paesaggisti di studiare
"nella stessa maniera (dal vero) gli effetti del cielo nelle diverse ore
del giorno, in stagioni diverse e con diverse disposizioni delle
nuvole...", e numerosi paesaggisti del Settecento (a cominciare dal più
celebre, come Joseph Vernet) avevano applicato tale tradizione classica,
riprendendo nei quadri dipinti in studio il tema delle ore del giorno, a quel
tempo molto in voga, come pure quello delle stagioni.
Allo stesso modo, un secolo dopo,
Valenciennes descriveva dettagliatamente le quattro ore del giorno più propizie
allo studio del paesaggio:"Le divisioni adottate dagli artisti per le
quattro parti del giorno sono:il mattino, il mezzogiorno, la sera e la
notte". Presso lo studio di Michallon e poi in quello di Bertin, entrambi
ferventi ammiratori di Valenciennes, Corot dovette apprendere le
caratteristiche proprie della luce umida e fresca del mattino, quell'ora
"in cui il sole, appena sorto lungo la linea dell'orizzonte, irradia la
sua luce brillante su tutti gli oggetti della natura conferendo loro il
sentimento della vita a mano a mano che il suo calore benefico si
accresce". Gli erano state inoltre impartite raccomandazioni utili a
rendere la luminosità intensa di mezzogiorno, quando "la natura (è) in
preda al fuoco divorante della canicola (e quando) le ombre dei corpi sono
appena visibili". L'artista aveva inoltre potuto copiare diversi studi di
Michallon e di Bertin dipinti la sera, nell'ora in cui "gli oggetto
rischiarati assumono una tinta dorata che contrasta singolarmente con le ombre
bluastre che si osservano sempre al tramonto del sole".
Dunque, quando cominciò a lavorare
nei giardini Farnese, Corot aveva ben presenti questi precisi insegnamenti
riguardanti la necessità per il giovane pittore di abituare l'occhio e la mano
a cogliere gli effetti di luce a seconda delle ore del giorno, e il suo
approccio sembra prima di tutto didattico. Corot procede nel suo lavoro con
metodicità e gli orientamenti da lui scelti per ciascuno degli studi seguono
fedelmente quelli del sole: al mattino, guardava la chiesa di San Sebastiano a
est, a mezzogiorno il Colosseo, a nordest, e la sera, si volgeva nettamente
verso ovest e il Foro. Il giovane artista metteva così in pratica gli
insegnamenti ricevuti a Parigi. (Corot 1796- 1875, a cura di M. Pantazzi,
V. Pomarède, G. Tinterow, catalogo della mostra Parigi, Galeries Nationales du
Grand Palais, 28 febbraio/ 27 maggio 1996- Ottawa, Musée des Beaux-Arts du
Canada, 21 giugno/ 22 settembre 1996- New York, The Metropolitan Museum of Art,
22 ottobre 1996/ 19 gennaio 1997, edizione italiana del catalogo Milano,
Electa, 1996, pp. 82-83, cat. 8).
Ippolito Caffi, Veduta
del Colosseo, olio su
tela, 28 x 42,2 cm, firma in basso a destra: "Caffi", Collezione
privata e Veduta notturna del Colosseo,
olio su tela, 28 x 42,2 cm, firma in basso a sinistra: "Caffi",
Collezione privata.
Le due vedute a
pendant sono probabilmente opere di poco precedenti al viaggio in Oriente,
collocabili quindi intorno al 1843, come gli esemplari della Galleria di Ca'
Pesaro. In queste tematiche si evidenzia che il rapporto di Caffi con l'antico
lo allontana sempre più decisamente da ogni tradizione vedutistica
settecentesca, lasciandogli la possibilità di sfruttare il lato più
"romantico" del suo talento.
Nella veduta diurna
la penombre del primo piano su cui si inseriscono anche le figure lascia mano a
mano il campo a una solarità piena e dorata che accarezza il monumento e ne
trasmette l'imponente storicità. Le pietre assumono un colore bruno che invade
e domina la scena; ogni altra variazione tonale gli è subordinata. Una
apparente monocromia analoga, e ancora più decisa, è nella veduta notturna:
l'artista in questo caso si pone in un punto di ripresa che gli consente la
visione dell'interno della sua globalità. Il Colosseo riempie lo spazio, esce
dai contorni ed avvolge lo spettatore. Come sempre di notte, l'artista forza la
mano ed esprime mistero e magia: contribuisce a questo, immota, la luna piena
che qui diviene, diversamente che nel Pantheon di notte, compagna di
meditazione. Rispetto a quest'ultimo dipinto citato, infatti, il sentimento che
si percepisce è sereno, dolce, senza violenza. Nel tono grigio adottato,
modulato in ombreggiature e cangiantismi si leva -gioco a effetto- il rossore
del fuoco che si intravede tra gli archi del fondo, delicato anch'esso.
A.Scarpa in Caffi. Luci del Mediterraneo (catalogo della mostra Belluno,
Palazzo Crepadona, 1 ottobre 2005- 22 gennaio 2006/ Roma, Museo di Roma-Palazzo
Braschi, 15 febbraio- 2 maggio 2006), a cura di A. Scarpa, Milano, Skira, 2005,
p. 279, cat. 74-75)
Ippolito Caffi, Interno del
Colosseo con fuochi di bengala, 1845 circa, olio su carta applicata su
tela, 25,5 x 41,5 cm, Roma, Museo di Roma, inv. MR5694
La visione notturna del Colosseo e
la passeggiata alla luce della luna all'interno dell'anfiteatro erano diventate
nei primi decenni dell'Ottocento esperienze irrinunciabili per i grandi
viaggiatori e per l'élite intellettuale permeata dallo spirito romantico
dell'epoca, tanto da offuscare l'interesse puramente archeologico per lo
straordinario monumento dell'età Flavia.
Da Goethe a Madame de
Stael, da Lord Byron a Edith Warthon, la visita di notte al Colosseo era
apparsa come un'esperienza esclusiva e affascinante, per la quale valeva la
pena affrontare i pericoli dovuti alle scarsissime condizioni di sicurezza
nelle quali versava il monumento.
La relativa solitudine di una
passeggiata romantica, però, veniva bruscamente interrotta quando il Colosseo
si trasformava in un luogo di giochi pirotecnici ai quali poteva assistere una
folla festante ed entusiasta. Fuochi e girandole erano caratteristici strumenti
spettacolari delle feste romane fin dal XVII secolo, dalla famosa girandola di
Castel Sant'Angelo, in occasione della ricorrenza dei Santi Patroni di Roma,
all'illuminazione della cupola di San Pietro durante le festività pasquali.
Certamente, però, il finto incendio all'interno del Colosseo che animava di
rossi bagliori le mura, gli archi e i pilastri rappresentava una visione particolarmente
emozionante per quanti si assiepavano in prossimità dell'edificio.
Per raffigurare la scena Caffi
scelse un punto di vista ravvicinato ponendo in primo piano le grandi sagome
scure di tre grandi pilastri diruti e accentuò la drammaticità dell'immagine
contrapponendo al nero delle ombre i rossi bagliori delle superfici infuocate,
i bianchi accecanti delle luci al centro della scena e i verdi riflessi sotto
le volte degli archi. Evidentemente, oltre all'interesse per gli effetti
teatrali della festa notturna, Caffi, artista e patriota, ha voluto
manifestare, con la giustapposizione delle tre cromie dominanti, un chiaro
significato politico.
F. Pirani, in Caffi.
Luci del Mediterraneo (catalogo della mostra Belluno, Palazzo Crepadona, 1
ottobre 2005- 22 gennaio 2006/ Roma, Museo di Roma-Palazzo Braschi, 15
febbraio- 2 maggio 2006), a cura di A. Scarpa, Milano, Skira, 2005, p. 280,
cat. 77.
Ippolito Caffi, Fuochi di
bengala al Colosseo, olio su tela, 40 x 60, firma in basso a destra:"
Caffi", Collezione privata
Tre sono le versioni note di questo
soggetto: una al Museo di Roma (scheda precedente), e una alla Galleria di Ca'
Pesaro, tutte di dimensioni minori; una copia è comparsa alcuni anni or sono sul
mercato delle aste. La bellezza della raffigurazione trae ulteriore forza dalla
magicità del luogo dove si sommano realtà, storia e mistero in un'atmosfera
irreale e fatata. Le tre figure in primo piano, ben reali ed evidenti, intente
nel loro intimo dialogo, sono il vero, il resto diventa sogno: anche la folla
sullo sfondo, vivida nel biancore del fumo, diviene una massa indistinta e
appena accennata di cui è arduo individuare i contorni. Volutamente l'artista
accentua i contrasti e le rovine al centro della scena assumono la valenza di
una struttura scenografica teatrale che fa da quinta ai personaggi dinnanzi a
noi. I bruni carichi dei primi piani, impastati col nero, non impediscono una
precisa resa architettonica, mentre, per contrasto, la luminosità dello sfondo,
cangiante e fluida nel suo scorrere dai rossi, ai rosa, ai bianchi, diventa più
indefinita e, sapientemente, catalizza l'attenzione. Sono dipinti come questi
che avvalorano la frattura netta che esiste tra il vedutismo di Caffi e quello
settecentesco, da cui necessariamente lo si deve far nascere. Ippolito, pur
sublime nel saper cogliere gli effetti luministici delle albe e dei tramonti, è
indubbiamente insuperabile nelle feste e negli spettacoli notturni: la sua
capacità di rendere l'emozione dei contrasti, dei bagliori improvvisi, delle
luci violente che fanno sobbalzare, anticipa di molti decenni le soluzioni di
sapienti rese cinematografiche.
A. Scarpa, in Caffi.
Luci del Mediterraneo (catalogo della mostra Belluno, Palazzo Crepadona, 1
ottobre 2005- 22 gennaio 2006/ Roma, Museo di Roma-Palazzo Braschi, 15
febbraio- 2 maggio 2006), a cura di A. Scarpa, Milano, Skira, 2005, p. 280,
cat. 78.
Ippolito Caffi, Il Colosseo
visto dall'alto, 1855, olio su carta applicata su tela, 54,5 x 89,5 cm,
firma e data in basso a destra "Caffi/Roma 15 dicembre 1855", Roma,
Museo di Roma, inv. MR5679
Fervente patriota,
Caffi lasciò Roma nel 1848 per accorrere in difesa di Venezia, che era insorta
contro gli austriaci. Segnato nella lista dei quaranta proscritti dall'Austria,
insieme a Nicolò Tommaseo e a Daniele Manin, soggiornò prima a Genova e poi a
Torino e a Nizza, stabilendosi a Parigi nel 1854, dopo un viaggio in
Inghilterra e in Spagna. Quando, nell'agosto del 1855, Caffi ritornò a Roma, la
stampa lo accolse trionfalmente, nonostante i suoi trascorsi rivoluzionari. Il
primo quadro di questa sua seconda stagione romana è Il Colosseo visto
dall'alto, firmato e datato 15 dicembre 1855, che sarà esposto insieme ad altre
opere di soggetto parigino, orientale, veneziano e romano, alla "Mostra
degli Amatori e Cultori di Belle Arti" del 1856.
Il "Giornale di
Roma" dedicò all'artista per l'occasione un numero speciale intitolato
Recenti pitture di Ippolito Caffi, scritto da Giuseppe Checchetelli. Sta in mezzo a
spazioso campo nel cui fondo ravvisi la Villa Mattei, il Palazzo de' Cesari, la
Piramide di Cestio".
L'entusiasmo mostrato
dal Checchetelli nella sua descrizione della pittura è ampiamente giustificato
dal suggestivo effetto raggiunto dal pittore nel rendere efficacemente
l'inusuale prospettiva dall'alto dell'anfiteatro Flavio che lascia la
possibilità allo sguardo di spaziare, oltre l'arena illuminata dalla calda
luminosità della tavolozza impiegata, in un ampio panorama di Roma, appena
velato da una leggera foschia, che dal profilo di Santo Stefano Rotondo
attraversa il Celio con San Gregorio, la piramide di Caio Cestio, fino al
Palatino con le rovine dei palazzi imperiali e la chiesa di San Bonaventura.
L'interno del monumento, insieme allo studio di una luminosità naturale, dove
si alternano le zone d'ombre a quelle assolate, rivela un'attenzione al vero
nei particolari delle edicole per la Via Crucis e della croce, entrambe
edificate per volere papale quando il Colosseo venne consacrato alla Passione
di Cristo. Eppure l'originalità della pittura, superiore a molte della
numerosissima serie di vedute del Colosseo, ritratto più volte da Caffi nelle
diverse ore del giorno, finanche di notte illuminato dai fuochi del bengala,
potrà essere in parte ridimensionata confrontando il taglio compositivo del
quadro con quanto veniva contemporaneamente prodotto in ambito fotografico e,
in particolare, con l'immagine del "pittore-fotografo" padovano
Giacomo Caneva, Veduta parziale del Colosseo visto dall'alto, del 1851.
F. Pirani in Caffi,
Luci del Mediterraneo (catalogo della mostra Belluno, Palazzo Crepadona, 1
ottobre 2005- 22 gennaio 2006/ Roma, Museo di Roma-Palazzo Braschi, 15
febbraio- 2 maggio 2006), a cura di A. Scarpa, Milano, Skira, 2005, pp.
278-279, cat. 73)
Ippolito Caffi, Interno del
Colosseo, 1857 circa, olio su carta applicata su tela, 33,2 x 47,2 cm,
cartiglio sul verso: "Roma. Interno del Colosseo", Roma, Museo di
Roma, inv. MR5694
Di poco successivo al
famoso dipinto di Caffi Interno del Colosseo visto dall'alto, questa veduta
della profonda cavea dell'anfiteatro sembra essere un proseguimento ideale
dell'innovativa ricerca prospettica avviata dall'artista qualche mese prima.
L'opera venne apprezzata dalla critica contemporanea, che scrisse a proposito
"le fughe dei colonnati e degli archi, gli sfondi e gli scorci, tagliati
da un fascio di raggi solari, sorprendono per l'intelligenza del punto di
prospettiva, e per l'economia del segno e per l'intreccio elegante di linee
rette e curve". La tela presenta vivaci effetti cromatici nella
contrapposizione tra la luce che inonda il cielo e si incunea tra i pilastri e
gli archi sullo sfondo e l'ombra scura che avvolge i primi piani colorando di
toni violacei l'interno inanimato del monumento.
Anche in questo. come
in molti altri dipinti, è sorprendente la somiglianza con alcune fotografie
coeve. Se da una parte, infatti, le vedute del Colosseo subiscono una certa
standardizzazione ponendosi quali souvenirs di facile commercializzazione per un
pubblico sempre più vasto, dall'altra il confronto con alcune calotipie può far
ipotizzare una frequentazione di Caffi, non solo episodica, con l'ambiente dei
pittori-fotografi che diedero vita alla "Scuola romana di
fotografia". Questi fotografi, peraltro, si incontravano proprio al caffè
Greco dove Caffi aveva dipinto, qualche anno prima, alcune sale con le vedute
di Venezia e di Roma e, soprattutto, era diventato, a partire dagli anni
quaranta, il suo recapito postale.
In particolare per
quest'opera è istituibile una significativa comparazione con gli studi del
pittore prospettico e fotografo padovano, ma attivo a Roma, Giacomo Caneva, che
qualche anno prima aveva eseguito diverse calotipie del Colosseo, inquadrandolo
in insolite prospettive analoghe però a quelle utilizzate da Caffi in questi
dipinti.
F. Pirani in Caffi,
Luci del Mediterraneo (catalogo della mostra Belluno, Palazzo Crepadona, 1
ottobre 2005- 22 gennaio 2006/ Roma, Museo di Roma-Palazzo Braschi, 15
febbraio- 2 maggio 2006), a cura di A. Scarpa, Milano, Skira, 2005, p. 279,
cat. 76.