domenica 12 gennaio 2014

CAPITELLI ROMANICI

I capitelli romanici

La scultura romanica è strettamente connessa all’architettura. Tale connessione è di natura sia fisica (dal momento che si trova essenzialmente nelle parti strutturali quali capitelli e portali), sia simbolica (in quanto attraverso le immagini che vi sono espresse, si attuava un forte indottrinamento che trova giustificazione nell’idea di “Biblia pauperum”, ossia “Bibbia dei poveri”, promossa dai tempi di San Gregorio Magno). Le figure sono collocate nei punti più visibili ai fedeli e, dunque, in posizioni elevate. Grande è il contributo che le vie di pellegrinaggio hanno dato alla costruzione di edifici dove la ricchezza decorativa si univa alla fantasia. Qui si porteranno alcuni esempi derivati dalla realtà romanica del Sud della Francia, lungo le vie che conducevano a Santiago de Compostella.


Fondamentale è l'esempio dato dall'Abbazia di Cluny. Distrutta ai primi del XIX secolo restano a testimoniare lo splendore alcuni capitelli ora conservati nel locale museo, detto Museo del Magazzino della farina, costruito nella seconda metà del Duecento.

Si assume come esempio della complessità di un singolo capitello, quello che raffigura il Paradiso. Il testo che segue è tratto dal sito http://www.narthex.fr/blogs/abbaye-de-cluny-910-2010/les-sculptures-de-cluny-iii-1ere-partie-les-chapiteaux-du-choeur

Le sixième chapiteau ne soulève aucun problème d’interprétation avec des représentations des quatre fleuves du Paradis : le Phison, le Gehon, le Tigre et l’Euphrate avec le pommier, le figuier, l’amandier et la vigne.
Laissons Raoul Glaber nous expliquer la symbolique de ces quatre fleuves à travers ce passage de ses Histoires (1,2,3) cité par Georges Duby dans son ouvrage de 1967, L'An Mil : " Ces incontestables rapports entre les choses nous prêchent Dieu d’une manière à la fois évidente, belle et silencieuse ; car tandis que, d’un mouvement immuable, telle chose présente une autre en soi-même, en prêchant le principe premier dont elles procèdent, toutes demandent de s’y reposer à nouveau. Il faut aussi, à la lumière de cette réflexion, examiner d’un esprit attentif le fleuve qui sort de l’Eden à l’Orient et se divise en quatre cours très bien connus : le premier, le Phison, dont le nom veut dire ouverture de la bouche, signifie la prudence, laquelle est toujours diffuse et utile dans les meilleurs : car c’est par sa propre inertie que l’homme a perdu le Paradis, et c’est à l’aide de la prudence qu’il doit le reconquérir.
Le second, le Géon, dont le nom signifie ouverture de la terre, signifie la tempérance, nourrice de la chasteté, qui extirpe les rameaux des vices.
Et le troisième, le Tigre, dont les rives sont habitées par les Assyriens, c’est-à-dire les dirigeants, signifie pour sa part la force, qui, après avoir expulsé les vices prévaricateurs, dirige, avec l’aide de Dieu, les hommes vers les joies du royaume éternel.
Quant au quatrième, l’Euphrate, dont le nom veut dire abondance, il désigne évidemment la justice, qui nourrit et réconforte toute âme qui la désire ardemment. Or, de même que l’appellation de ces fleuves porte en elle les images des quatre vertus, et en même temps la figure des quatre Evangiles, de même ces vertus sont contenues en figure dans les époques de l’histoire de ce monde, qui sont divisées en quatre. 

Un altro importante esempio di decorazione romanica francese, è il portale della chiesa di saint-Lazare ad Autun. Fu firmato dallo scultore Gislebertus ("Gislebertus hoc fecit") e presenta una complessa e didascalica raffigurazione del Giudizio finale.
L’immagine di Cristo entro una mandorla  assume proporzioni molto maggiori delle altre figure (è infatti alta ben cm 305). Alla sua destra sono Apostoli, angeli, la Gerusalemme celeste e la Vergine. Alla sua sinistra invece vi è il giudizio delle anime, sottoposte alla pesatura da parte di un angelo che tiene una bilancia. A destra di Cristo è l’Arcangelo Michele che pesa le anime e un piccolo demone. A sinistra San Pietro accoglie le anime dei beati in Paradiso. Adamo ed Eva sono identificati tra i beati, insieme a un monaco e pellegrini di ritorno da Gerusalemme e da Santiago di Compostela, città che sono alluse rispettivamente dalla Croce e dalla conchiglia. Si tratta inoltre di un importantissimo esempio della scultura romanica nella Francia del sud databile al 1130 circa (e quindi pochi anni dopo l’intervento di Wiligelmo nel duomo di Modena). Reca una iscrizione in latino che, tradotta, recita: «Io solo dispongo di tutto e corono i meriti/ La pena inflitta da me giudice arresta quelli che sono dominati dal vizio e così risorgerà chiunque non è vittima di una vita empia e per lui brillerà senza fine la luce del giorno […] questo terrore atterrisca coloro che l’errore terreno tien vincolati/ infatti qui l’orrore delle immagini annuncia che davvero avverrà così».

La chiesa della Sainte-Madeleine a Vézelay

Altre architetture francesi degne di nota sono la chiesa di Sante-Madaleine a Vézelay, del 1140 circa.
Il portale della chiesa di Vézelay
Un capitello a Vézelay che mostra un mugnaio che vende farina



mercoledì 27 novembre 2013

Il Colosseo e i suoi ritratti

 L'ICONOGRAFIA DELL'ANFITEATRO FLAVIO NEI SECOLI

Nelle pagine che seguono sono stati raccolti numerosi documenti figurativi dell'Anfiteatro Flavio, più comunemente noto come Colosseo, dal Medioevo al Romanticismo. Un ampio arco cronologico che consente di prendere visione del mutamento intervenuto nella rappresentazione dell'edificio, che da emblema di Roma nel Medioevo e nel Rinascimento, diviene elemento architettonico di irresistibile fascino durante la stagione Romantica. Luogo di combattimenti sanguinosi e "cava" di marmo per i nuovi simboli della nuova Roma rinascimentale e cristiana, fra tutti il Palazzo della Cancelleria e la basilica di San Pietro, l'edificio ha saputo sfidare i secoli dilettando la sensibilità di viaggiatori e artisti, intellettuali e poeti, che ne fecero luogo di silenziose meditazioni con la storia e con la Natura la quale, tra gli anfratti delle antiche pietre, animava le rovine con inattese fioriture di acanti, viole, caprifogli. Nel medioevo castello della famiglia Frangipane, nel tardo Cinquecento sfiorato dal progetto che lo avrebbe trasformato in una fabbrica tessile (Domenico Fontana), per gli artisti neoclassici e quindi romantici il Colosseo seppe trasformarsi in uno studio a cielo aperto, per la Roma cristiana un nuovo spazio, fisico e simbolico, riscattato dal paganesimo. Forse nessun altro edificio ha saputo rivestire nei secoli un numero così elevato di funzioni e investire l'immaginario dei visitatori di suggestioni, le più diverse. La moderna archeologia, ripulendolo energicamente dalle piante - e, in modo assai meno duraturo, dagli agenti inquinanti- ha restituito l'edificio all'aspetto che conosciamo oggi: un luogo di visita obbligata quanto distratta, affollato, chiuso però a quei segreti percorsi notturni che deliziavano, tra gli altri, Goethe e Madame de Stael, così come chiuso sempre più nell'angusto stereotipo di quella Roma antica che si trova riflessa immancabilmente nelle cartoline turistiche e nell’omologante e kitch produzione di oggetti da bancarella.
Ecco dunque che questo percorso ha come principale finalità quella di riscattare il monumento proprio da tale immagine stereotipata, consegnandolo a una immaginazione e ad una sensibilità che si nutrano della sua storia (e dell'arte che esso ha saputo ispirare) al fine di poter ancora oggi, con occhi moderni, dialogare col passato in vista di una rigenerazione futura. Perché l'epoca in cui ci troviamo a vivere, quella che spesso con troppa enfasi definiamo modernità, non sia presuntuosamente il traguardo della storia, ma solo una tappa, e probabilmente non la migliore, di un lungo percorso. 

(Moneta di Alessandro Severo, 223 d.C.)


“L’anfiteatro di Vespasiano detto coliseo o colosseo è considerato come uno de’ più magnifici edifizj del mondo; onde Marziale disse dovergli cedere anche le piramidi ed i mausolei, e dover la fama parlar di esso solo per tutti gli altri –Cassiodoro è d’avviso che col denaro speso nella fabbrica del colosseo si sarebbe potuto fabbricare una città capitale. (Variar. Lib. IV Epis. 42). Questa grandiosa mole che ebbe principio sotto Vespasiano, e fu condotta a termine e consacrata da Tito ottenne il nome di coliseo o colosseo non perché giacesse vicino al colosso di Nerone alto centoventi piedi, opera di Zenodoro, che fu collocata nel vestibolo della sua casa aurea: ma perché quest’edifizio compariva tra tutti gli altri quel che era tra le statue un colosso, e perché anticamente così si appellava tutto ciò che eccedeva in grandezza. La quale opinione contraria a quella del Cardini, e di molti altri critici si può vedere confermata da validi argomenti nell’opera del Maffei sugli anfiteatri degli antichi, ed in quella del Canonico Alessio Mazochio sopra l’anfiteatro di Capua. Il Fontana dà al coliseo la lunghezza di piedi 564, e la larghezza di 467, il campo è lungo piedi 273, largo 173: il circuito fu di piedi 1566”.  
(Giulio Ferrario, Il Costume antico e moderno o Storia del Governo, della Milizia, della Religione, delle Arti, Scienze ed Usanze di tutti i popoli antichi e moderni, vol. V, Firenze, per Vincenzo Batelli, MDCCCXXVIII)
Beda, monaco benedettino e sacerdote (c. 672 – 25 maggio 735), al quale è stato associato il titolo di Venerabilis già due generazioni dopo la sua morte, è stato autore di questa celebre profezia, secondo cui
Coliseus stabit et Roma.

Quando cadet Coliseum, cadet et Roma.

Spettacoli e orrore nel colosseo

L’anfiteatro Flavio venne inaugurato nell’80 d.C. Rivolgendosi a Tito, il poeta Marziale scrisse: «Roma è stata resa a se stessa, o Cesare, e sotto la tua guida ora sono del popolo i luoghi di delizie che erano stati di un despota.»
Le cronache testimoniano di come le belve fossero condotte nell’arena talvolta con tutta la gabbia (D. Cassio, Historia Romana, LXXII, 19), e in altri casi fatte irrompere bruscamente a gruppi, suscitando la sorpresa degli spettatori. Ancora Dione Cassio (XXI, 1) riferisce che gli animali venissero fatti emergere dal suolo stesso dell’arena mediante botole. A questo scopo erano le numerose gallerie e locali sotterranei, che avevano la funzione di quinta scenica, in cui erano montacarichi in grado di sollevare le gabbie fino al livello dell’arena (Vopisco, Probo, 19). Talvolta i poveri animali, già debilitati dalla lunga cattività e spaventati, si rifutavano di uscire dalla gabbia e restavano inerti sul posto (Tertulliano, Passio SS. Perpetuae et Felicitatis, 21). A questo punto li si eccitava con ogni mezzo, anche il più crudele: frustate, ferite, grida, fino ad arrivare, specie per i tori, all’uso del fuoco o del pungolo, analogamente a come fanno oggi i toreadores con le banderillas.
La costante richiesta di spettacoli cruenti arrivava ad atti di ferocia inaudita. Cassio ricorda che sotto Caligola «sono venuti a mancare criminali e lo spettacolo doveva quindi essere sospeso. Quello allora aveva dato l’ordine di andare a catturare e di gettare alle bestie senza alcun motivo degli spettatori a caso. A questi disgraziati, prima di farli entrare nell’arena, hanno tagliato la lingua per non fare sentire al pubblico le grida di aiuto o gli improperi contro l’imperatore.» (D. Cassio, Historia romana, LIX, 10). [Domenico Augenti, Spettacoli del Colosseo: nelle cronache degli antichi, Roma, «L’Erma» di Bretschneider, 2001]
Quando Costantino proclamò la libertà di culto per i cristiani, gli spettacoli anfiteatrali continuarono senza alcuna interruzione. Si trattava di una tradizione così profondamente legata ai romani che le espressioni del munus, della venatio e del summum supplicium si mantennero inalterate ancora durante il IV secolo, riscuotendo ancora un grande successo. Lo dimostra anche la scelta di ornare il pavimento di una villa tuscolana in località Torrenuova, sulla via Casilina, con un mosaico raffigurante l’esecuzione di “damnati ad bestias”, oggi conservato nella Galleria Borghese di Roma. La sua datazione, tra il 310 e il 320, coincide dunque con l’impero di Costantino. Il primo che si oppose a questa tradizione  fu il cartaginese Tertulliano che, convertitosi in un primo momento alla fede cattolica, tra II e III secolo si rivolse ai cristiani esortandoli a non  partecipare agli spettacoli nell’anfiteatro, considerati il riflesso di culti idolatri e visti quali fonti di corruzione morale (De spactacula). Il pensiero di Terulliano, che individuava nell’Anfiteatro la dimora di demoni pagani, si fece largo nell’immaginario popolare al punto che, nel basso medioevo, il Colosseo assunse una connotazione fortemente negativa, quasi fosse tempio dei demoni. Dall’anno della sua inaugurazione, nell’80 d.C., l’anfiteatro flavio fu il luogo dove gli imperatori organizzavano incontri cruenti tra animali e uomini. Ad esempio Gordiano I, durante il suo unico anno di regno (238), offrì al popolo dodici spettacoli (uno al mese) in cui fecero la loro comparsa 500 coppie di gladiatori. In un solo giorno vennero sacrificati cento leoni e in un altro mille orsi.
Rossella Rea, I cristiani, vittime e spettatori nel templum demonum: il Colosseo, in pp. 129- 133. Risalente al tempo di Gordiano I si conserva una moneta con l’immagine del Colosseo, dove è ben visibile anche la Statua solis fatta erigere da Nerone. Dalla prossimità del colosso neroniano l’anfiteatro flavio derivò l’appellativo di Colosseo, ma nei testi medievali è indicato anche come Templum solis. In prossimità del Colosseo si trovava forse anche la grande statua bronzea di Costantino la quale, secondo le fonti, era l’idolo più importante di Roma, e come tale venerato da tutti i visitatori. Per tale motivo papa Silvestro avrebbe fatto distruggere la statua e portato i frammenti nei pressi del Laterano.

Jean-Léon Gérôme (1824-1904), Le ultime preghiere dei martiri cristiani, olio su tela, cm 87,9 x 150,1, Baltimora, Walters Art Gallery. Questo dipinto, commissionato da William T. Walters nel 1863, venne consegnato solo venti anni più tardi.. Il pittore ha ambientato la scena all’interno del Circo Massimo, nonostante vi siano forti somiglianze col Colosseo. Curioso che, sullo sfondo, il pittore abbia inserito una collina sulla quale spicca una statua colossale, in tutto simile all’Acropoli ateniese piuttosto che al romano Colle Palatino.

Immagini del Colosseo tra Medioevo e Rinascimento


Taddeo di Bartolo, Veduta di Roma, 1406-14, Siena, Palazzo Pubblico Anticappella.
In una lettera inviata nel 1411 da Roma all'imperatore di Bisanzio, Manuel Chrysoloras (Emanuele Crisolora) descrive il modo in cui i monumenti stimolavano la sua immaginazione sull'antichità:"Dai resti di queste statue e colonne, di questi monumenti funebri ed edifici si possono riconoscere (tutti i tratti fondamentali di questa città): la sua ricchezza di denaro e di artisti e le loro qualità, anche la sua grandezza e maestà, la sua sensibilità per le cose elevate e l'amore per il bello, la sua opulenza e il suo lusso. Oltre a ciò il suo timore di Dio, la sua generosità, il suo amore per lo sfarzo, il suo ideale politico e le sue vittorie, tutta la sua prosperità e il suo dominio sui popoli, la sua fama e le sue imprese militari". Anche Brunelleschi deve aver elaborato con i suoi studi una immagine personale della città nel periodo antecedente la sua rovina. Le immagini che venivano comunemente proposte in quel periodo non corrispondono, se non in misura minima, al quadro della situazione presentato dai nuovi archeologi. Esse collimavano piuttosto con quei dipinti o scenografie tipici del Rinascimento che dovevano riprodurre l'ambiente antico inserendo monumento imponenti, o reali come il Colosseo, il Pantheon, la Colonna di Traiano, o fantastici, con case di tipo più o meno del periodo contemporaneamente collocate su ampie piazze, circondate da un'aura di placido decoro anche se abitate, senza segni di attività umana, come già si nota, nel XIV secolo, nelle rappresentazioni di scene cittadine reali, ben lontane dalla "Roma fumosa, ricca, rumorosa" (Orazio) descritta da molti scrittori antichi.
H. Gunther, La rinascita dell'antichità in Rinascimento. Da Brunelleschi a Michelangelo. La rappresentazione dell'architettura (catalogo della mostra Venezia, Palazzo Grassi, 31 marzo- 6 novembre 1994), a cura di H. Millon e V. Magnago Lampugnani, Milano, Bompiani, 1994, pp. 259-305, in part. p. 273 

Con lo studio dell'antichità classica, promosso dalla sensibilità umanistica, le rilevazioni delle antichità romane si fanno via via più dettagliate e precise. In alcuni casi tuttavia, come nel disegno del bolognese Amico Aspertini conservato al British Museum, l'osservazione dà luogo a risultati inattesi e decisamente deformati rispetto al reale aspetto del monumento, che viene ritratto con una accentuata verticalità, quasi una costruzione turrita. 

A. Aspertini, Colosseo, Londra, British Museum, mm. 219x119.

In ogni casi, quella dell'Aspertini risulta essere una eccezione (nonostante sembri ricalcare il disegno di Barnardino della Volpaia del Codice Corner conservato al Soane Museum di Londra). Già Francesco di Giorgio Martini propone una visione in pianta e in sezione dell'edificio nel Codice Saluzziano della Biblioteca Reale di Torino, seguito poi in forme piuttosto simili da Giuliano da Sangallo.
 Francesco di Giorgio, dal Codice Saluzziano, 148, f. 71r
 Francesco di Giorgio Martini (1439- 1502), Veduta e pianta del Colosseo, Torino, Biblioteca Reale, Codice Saluzziano 148, f. 71r

Questo scultore, pittore e architetto studiò e rilevò i monumenti antichi spingendosi fino alla Campania e fu attivo come traduttore di Vitruvio e autore di trattati d'architettura. Nonostante tutta l'universalità della sua cultura e la sua abilità nell'arte del disegno e il grande ingegno architettonico i suoi studi sull'antico non raggiunsero la perfezione tecnica teorizzata da Alberti. Nessuno dei suoi rilievi sarebbe stato traducibile in un modello che reggesse ai criteri albertiani, come anche i suoi ordini vitruviani non si basarono ancora sul trattato albertiano. La sua riproduzione del Colosseo in pianta, sezione prospettica e veduta corrisponde a un modo di rappresentazione già in uso prima di Alberti e, nella sua semplificazione schematica, va solo di poco oltre la veduta di Filarete di circa trent'anni anteriore. Questo fatto può essere spiegabile considerando il clima culturale della sua città natale, Siena, lontana dagli ambienti in cui ferveva il dibattito architettonico e non si trova più nei disegni quasi contemopanei di fiorentini come il Cronaca o Giuliano da Sangallo. 
C.L. Frommel, Sulla nascita del disegno architettonico, in Rinascimento. Da Brunelleschi a Michelangelo. La rappresentazione dell'architettura (catalogo della mostra Venezia, Palazzo Grassi, 31 marzo- 6 novembre 1994), a cura di H. Millon e V. Magnago Lampugnani, Milano, Bompiani, 1994, pp. 101-120, in part. pp.106- 107.

Giuliano Da Sangallo, dal Taccuino S IV 8 f. 7r

Giuliano da Sangallo (1445 ca- 1516), Pianta del Colosseo, Siena, Biblioteca Comunale, Taccuino S IV 8, f. 7r; Sezione del Colosseo, Siena, Biblioteca Comunale, Taccuino S IV 8, f. 5v; Alzato del Colosseo, Siena, Biblioteca Comunale, Taccuino S IV 6, f. 6r

Nel Taccuino Senese Giuliano riservò solo al Colosseo uno studio veramente analitico, rappresentandolo in pianta, alzato, sezione prospettica e veduta in prospettiva. Mentre nella sezione, nell'alzato e nella pianta del sistema a pilastri procedette in maniera di gran lunga più esatta di Francesco di Giorgio, conferì alla pianta una forma quasi circolare -una correzione forse consapevole, che è tanto più sorprendente se si pensa che già Alberti e Manetti avevano accennato a piante ovali e Filarete o Francesco di Giorgio erano arrivati sostanzialmente più vicini all'effettivo ovale della pianta. Nella sezione Giuliano da Sangallo si accontentò di informazioni talmente sommarie che difficilmente avrebbero incontrato l'approvazione di Leon Battista Alberti. Anche nei suoi studi degli ordini antichi si avverte che gli insegnamenti albertiani non gli erano familiari e che dovette elaborare autonomamente, passo dopo passo, il vocabolario degli ordini antichi. Essendo i teatri di Roma distrutti o fortemente danneggiati, il Colosseo inizialmente appariva spesso come prototipo dell'intera categoria comprendente diversi edifici per spettacoli e gare di lotta. Poi Francesco di Giorgio riprodusse il Teatro di Ferento, Giuliano da Sangallo vide il Teatro, ben conservato, di Orange, Gian Critoforo Romano dovrebbe aver visitato il teatro presso il Monte Zaro a Pola, quasi intatto fino al XVII secolo.
C.L. Frommel, Sulla nascita del disegno architettonico, in Rinascimento. Da Brunelleschi a Michelangelo. La rappresentazione dell'architettura (catalogo della mostra Venezia, Palazzo Grassi, 31 marzo- 6 novembre 1994), a cura di H. Millon e V. Magnago Lampugnani, Milano, Bompiani, 1994, pp. 101-120, in part. p. 108.
Jacopo Ripanda, Traiano informato del tradimento di Decebalo riprende la guerra, Londra, British Museum, Department of Prints and Drawings.
            La figura maschile in primo piano, con la barba lunga e un rotulo semisvolto fra le mani, che giunge improvvisamente -e la rapidità di movimento è sottolineata dai panneggi agitati e dal mantello svolazzante sulle spalle- fra due gruppi di personaggi seduti, sembrerebbe adatta ad impersonare il messaggero che porta a Roma con la massima celerità possibile la notizia del tradimento di Decebalo.
            Il suo sguardo incontra quello della figura a destra seduta su un podio decorato: secondo questa lettura, potrebbe trattarsi di Traiano, l'imperatore incoronato di alloro per la recente vittoria nella prima guerra dacica, che lo ascolta con preoccupata attenzione. Alle sue spalle una folla composita assiste all'avvenimento: da destra si scorge un anziano togato, un militare con un'insegna e un gruppo di personaggi, fra i quali spicca una figura femminile con il seno scoperto e un bambino tenuto per mano. Potrebbe trattarsi, come per il giovane alla sua destra con le mani chiaramente legate dietro alla schiena, di un ostaggio di rango condotto a Roma dopo la fine della prima guerra dacica; la presenza di questa prigioniera al cospetto dell'imperatore richiama subito alla mente un passo della Storia Romana di Cassio Dione, là dove lo storico antico ricorda fra le cause della prima vittoria conseguita da Traiano in Dacia l'espugnazione di alcune fortezze montane e la cattura della sorella di Decebalo (LVIII, 9, 4): ma se questo brano non sembra che fosse noto nel primo Cinquecento, la presenza di questa figura femminile può forse essere imputata alla conoscenza di una scena della Colonna Traiana. Altri particolari di questo foglio trovano un significato coerente ricorrendo a questa chiave di lettura "traianea": così, il Colosseo sullo sfondo sembra voler alludere ai giochi gladiatorii offerti da Traiano al popolo di Roma per festeggiare il felice esito della prima guerra dacica; e così, la piccola figura a sinistra lanciata al galoppo su un cavallo impennato potrebbe accennare all'evento ricordato nella seconda parte dell'iscrizione ("...iterum Traianus in eum arma capit") e cioè alla pronta ripresa della guerra da parte dell'imperatore, nuovamente riconoscibile per la corona d'alloro sulla testa. Due figura, nell'angolo inferiore del disegno, si staccano dal consesso di personaggi che, con attenzione e stupore, assistono all'arrivo del messaggero dalla Dacia: si tratta, con ogni probabilità, di altri due ostaggi condotti a Roma al termine della prima guerra, colti in un atteggiamento di mesta rassegnazione.
V. Farinella, Archeologia e pittura a Roma tra Quattrocento e Cinquecento, Torino, Einaudi, 1992, pp. 106-107.

 Domenico Beccafumi (Siena, 1484- 1551), La storia di Papirius, olio su legno, 74 x 137,8 cm,  1520 circa, London National Gallery.
            This unusual subject has recently been identified as the story of the boy Papirius, who accompanied his father to the senate, and was sworn to secrecy concerning the debate: Questioned by his mother (left), he claimed they had discussed whether it would be better for men to have two wives, or women two husbands. The next day, she rallied the matrons of Rome to petition the senate that women might have two husbands, The senators were astonished and outraged until Papirius intervened to unravel the mistery (centre).
The jovial classical subject is of a kind favoured for the decoration of domestic interiors in the Renaissance period. Beccafumi included many identifiable Roman monuments among which are the Colosseum (centre) and Castel Sant'Angelo (right). (dal sito della National Gallery di Londra).
Maerten Van Heemskerck, Autoritratto con il Colosseo sullo sfondo, Cambridge, Fitzwilliam Museum
Questo autoritratto dell'artista olandese Maerten Van Heemskerck mostra come lo status della figura professionale del pittore fosse cambiata a cominciare dal XV secolo.  Non semplicemente impiegato per lavori su commissione, l'artista rivela qui una crescita di consapevolezza del proprio ruolo dipingendo se stesso come soggetto principale dell'opera.
L'orgoglio di Heemskerck e l'espressione del viso dominano lo sfondo. Veste un abito sobrio e ci guarda direttamente negli occhi. L'impressione è di avere davanti un intellettuale, qualcuno che lavora con la sua mente oltre che con le sue mani.
Nel 1532 Heemskerck viaggiò alla volta dell'Italia e trascorse diversi anni a Roma.  
Molte incisioni vennero derivate da questi disegni, e i lavori romani di Heemskerck divennero tra le principali fonti iconografiche per gli artisti del Nord Europa che non affrontarono direttamente il viaggio in Italia. Nel tardo '500, molti Olandesi conobbero Roma attraverso gli occhi di Heemskerck.
Questo dipinto fu realizzato 16 anni dopo il ritorno dell'artista dall'Italia.  
In lontananza, seduta su di un masso posizionato fra il primo piano e l'anfiteatro, si vede un uomo intento a schizzare l'architettura. La sua lunga barba scura è la stessa portata dallo stesso Heemskerck.
Così l'artista ha dipinto se stesso due volte, in due diversi ruoli: come diligente lavoratore e come fiero artista. E ancora una volta come artista consapevole di sè stesso si raffigura come creatore del dipinto, mostrandone la qualità di esecuzione.
E' notevole che l'angolo sinistro del cartellino su cui Heemskerck ha formato e datato il dipinto, è oscurato dalla sua tunica nera.  Ci troviamo di fronte a un dipinto nel dipinto, e il pittore si pone davanti ad una immagine che probabilmente intende sottolineare il suo contributo all'arte. L' autoconsapevolezza dell'artista è ancora più esplicita in una incisione del Fitzwilliam Museum nella quale Heemskerck pone in comparazione se stesso con Apelle, il grande artista della Grecia antica che fin dai Romani è stato ritenuto il pittore per eccellenza.
Jan o Lucas van Doetechum, Caccia al toro tra le rovine di un anfiteatro, 1552 circa, incisione, 37,4x 50,4 cm, Iscrizione, in alto "Amphitheatrum sive Arena", Los Angeles, The County Museum of Art, dono di Mary Stansbury Ruiz, inv. M.88.91.305
Bibl.: Dutch and Flemish Etchings, Engravings, and Woodcuts, ca 1450-1700, Amsterdam, M. Hertzbergen 1949, Hollstein 593.  

 D. Fontana.

Domenico Fontana, Della Trasportazione dell'Obelisco Vaticano, Napoli, 1604, parte II, fol. 18: qui si apprende che l'architetto responsabile della riqualificazione urbanistica di Roma al tempo di papa Sisto V (al secolo Felice Peretti), Domenico Fontana, aveva previsto la sistemazione dell'Anfiteatro Flavio in una fabbrica tessile.


 Santa Maria della Neve al Colosseo
Questa chiesa fa parte di quelle piccole opere cui è rivolta una parte dell’attività edilizia romana della prima metà del XVIII secolo dedicata al la ristrutturazione, con rettifiche anche al sito, degli antichi edifici religiosi di modeste dimensioni, secondo lo stile architettonico del “rococò romano”. La storia di questa fabbrica ha inizio già nel XII secolo quando è ipotizzabile, sul luogo dell’attuale, l’esistenza di una piccola chiesa. Le prime indicazioni certe sulla sua presenza si hanno solo nella seconda  metà del Cinquecento quando nelle piante di Roma è indicata in questa zona una chiesa con il nome di “S. Andrea” che diventa, nella cartografia del secolo successivo, “S. Andrea de Portugallo”. Agli inizi del XVII secolo la chiesa, con un fabbricato congiunto, viene concessa all’ “Università dè Rigattieri dè Roma” che al vecchio titolo di Sant’Andrea aggiunge quello di San Bernardino da Siena, suo protettore. La ricostruzione del piccolo complesso religioso, a seguito di tale evento, viene documentata dalle guide del tempo e da alcuni documenti di archivio senza però elementi sicuri sull’esecutore dell’opera. Nella pianta di Roma del Nolli del 1748 il nuovo complesso appare compiuto con un diverso orientamento rispetto alla chiesa precedente: la nuova infatti è posta quasi in asse con la via del Colosseo e occupa con il fabbricato adiacente uno spazio triangolare in punta all’isolato. Come progettista della nuova chiesa vengono indicate tre possibili personalità del primo Settecento romano: Carlo Fontana (1634-1714), il figlio nonché allievo Francesco (1668-1708), e Giuseppe Sardi (1680-1753); le prime due attribuzioni si qualificano entrambe  convincenti. Alla fine del XVIII secolo, con l’occupazione francese, la chiesa viene abbandonata. Nella prima metà dell’Ottocento l’Arciconfraternita del Santissimo Sacramento si trasferisce nella chiesa che muta di conseguenza il titolo in Santa Maria ad Nives. Tra i lavori di restauro che  hanno interessato il fabbricato negli anni 1960-1980, riveste particolare importanza il cosiddetto “taglio Massari” per il risanamento dell’umidità per capillarità. La facciata, caratterizzata in pianta da tre curve, concava-convessa-concava, è stata oggetto di un rilievo diretto che ha consentito la verifica della natura delle stesse, supposte archi di circonferenza, e quindi la determinazione dei rispettivi centri di curvatura.
Camilla Capitani, Santa Maria della Neve al Colosseo. Dal primo insediamento al prospetto settecentesco, in Bollettino d’Arte, LXXXVIII, 2003, aprile-giugno, fasc. 124, pp. 67 e segg.

L'anfiteatro Flavio e la chiesa dedicata ai Santi Martiri: l'Anno Santo del 1750
Rispetto al Pantheon, al tempio di Antonino e Faustina e alle terme di Diocleziano, la storia del Colosseo cristiano inzizia assai tardi: con la protesta, vinta, da quanti nel 1671 impedirono che l'arena fosse concessa dal Capidoglio per uno spettacolo di combattimento di tori. Alcuni studiosi hanno evidenziato l'importanza attribuita da quel momento in poi alle memorie cristiane collegabili al monumento, e hanno così ricostruito la sequenza delle tre proposte presentate di lì a poco per erigere una o più chiese all'interno dell'arena: due progetto alternativi presentati intorno al 1675, conosciuti da sole fonti manoscritte delle quali una fa il nome di Bernini, e il noto progetto elaborato da Carlo Fontana tra il 1707 e il 1713 e pubblicato a stampa nel 1725. Nessuno dei progetti fu mai preso seriamente in considerazione; tracce di una continuità di intenti nel voler rendere palesemente consacrato lo spazio dell'arena del Colosseo perdurano tuttavia negli stessi anni attraverso la realizzazione di alcuni provvedimenti auspicati in occasione dell'Anno Santo del 1675: per intercessione del carmelitano Angelo Paoli, intorno al 1714 sono stabilite le stazioni di una Via Crusis; l'arena è chiusa al passo carrabile e il suo accesso, proibito la notte, viene limitato a due soli ingressi, sormontati da segnali che indicano le memorie sacre ivi protette: affreschi rappresentanti scene di martirio e iscrizioni dedicatorie dipinte. Nuovi segni che vanno ad aggiungersi al piccolo oratorio situato entro l'arena, in un fornice attiguo all'ingresso verso San Giovanni in Laterano, esistente sin dal Medioevo, restaurato appena nel 1622 e stabilmente abitato da un eremita.
A questa situazione consolidata, l'attività pastorale di padre Leonardo da Porto Maurizio svolta durante il pontificato do Benedetto XIV doveva portare un nuovo slancio, volto a rinvigorire la pratica della Via Crucis nell'arena del Colosseo e, di conseguenza, a mettere di nuovo in primo piano le memorie sacre connesse all'anfiteatro. La storia della predicazione a Roma di padre Leonardo, e quanto è stato effettivamente realizzato nel Colosseo prima e dopo la sua morte (1751) sono argomenti ben noti. L'anno Santo del 1750 figura come momento finale di una lunga storia, perché è da considerarsi l'occasione propizia per rendere finalmente compiuti i precedenti e reiterati tentativi di rendere stabilmente consacrato lo spazio interno del Colosseo. Ne l'Idea di fondare nel Colosseo una Congregazione o sia Compagnia laicale si apprende che il dedicatario era il marchese Alessandro Gregorio Capponi, il quale si proponeva di fabbricare nel Colosseo "una più ampla e ornata chiesa", e di "rinnovare nel circuito di mezzo le 14 nicchie della via Crucis", e ancora di "ristorare alcune parti de' portici, e delle antiche scalinate". Tre anni dopo, può leggersi la prima menzione di un tale proposito registrata agli atti della Camera Capitolina: il 3 dicembre del 1749 è presentata la "supplica  delli deputati della nuova chiesa e via Crucis nel solo dentro il Colosseo". Pochi giorni dopo di legge che Benedetto XIV ha nominato il marchese Pietro Lucatelli -succeduto alla morte di Capponi (dicembre 1746) nella carica di Custode del Museo Capitolino- con il compito di assistere all'impresa; il 12 dicembre "fu tenuto congresso con i Conservatori" al fine di "concedere la facoltà di edificare la chiesa e le 14 cappellette"; ancora il giorno dopo, il Fiscale si incontra con il cardinale Valenti per "la nuova fabrica della Chiesa e cappellette nel Colosseo", prima dell'udienza pontificia ove i Conservatori presentano il loro assenso alla richiesta autorizzazione. Da altre fonti, è noto che padre Leonardo da Porto Maurizio il giorno 25 gennaio 1750 ottiene, con rescritto di Benedetto XIV, l'autorizzazione a fare rinnovare le 14 stazioni, precariamente istituite nel 1714. (si veda la tela dell'artista danese Christoffer Wilhelm Eckersberg, La processione della Via Crucis al Colosseo, del 1815-1816, conservato a Copenaghen, Den Hirshsprungske Samling, inv. 109, riprodotta più oltre.
            Le edicole della Via Crucis furono costruite nel corso del 1750, in sostituzione dei rozzi affreschi dipinti nelle arcate più basse dell'interno dell'anfiteatro. Le nuove stazioni -in probabile ottemperanza alla necessità di salvaguardare la fabbrica antica- furono edificate come costruzioni a sé stanti; il loro autore individuato nell'architetto Paolo Posi; i relativi affreschi sono opera di Luigi Garzi. All'atto della loro consacrazione, tenutasi negli ultimi giorni dell'Anno Santo, nel dicembre 1750, le cerimonie svoltesi permettono di dedurre che i diversi fautori del Colosseo cristiano abbiano trovato una ricomposizione unitaria: la prima cerimonia ha avuto luogo in Sant'Andrea della Valle, chiesa madre dei Teatini, tra i quali si era distinto, all'epoca di Bernini, padre Carlo Tommasi e, sotto il pontificato di Benedetto XIV, il nipote Giuseppe Maria. La benedizione delle edicole e l'erezione della croce nel Colosseo ha luogo, in nome del papa, ad opera dell'arcivescovo di Roma, Ferdinando M. De Rossi. Al francescano padre Leonardo è affidato il sermone principale. Ciò che però è del tutto scomparso dai documenti e dalle minuziose cronache delle cerimonie religiose è ogni riferimento all'auspicato restauro delle arcate del Colosseo e, soprattutto, al proposito di erigere una nuova chiesa all'interno dell'arena.
La spiegazione può trovarsi, solo un mese dopo, nelle pagine del Diario tenuto dal Fiscale Capitolino: il 12 gennaio è presentato "il ricorso de' Letterati d'ogni nazione per impedire la deformazione del Colosseo con la nuova chiesa destinata". A un mese dalla conclusione dell'Anno Santo, qualcuno si è fatto latore in Campidoglio di una lettera che, a nome dell'opinione pubblica d'oltralpe, ha chiesto di fermare la costruzione della chiesa al fine di preservare l'integrità del monumento antico. Il progetto della chiesa non è stato reperito e, forse, non è stato mai del tutto neppure elaborato; della lettera che ne chiede la sospensione, conosciamo solo quanto abbiamo trascritto; che, infine, tale protesta sia stata recepita è da noi tentativamente dimostrato con il prosieguo della vicenda -che vede l'erezione della chiesa collegata alla pratica della Via Crucis in altro luogo. Ciò non toglie che, un'azione così forte e imprevista, meriti di essere più attentamente approfondita sia nel merito, che nell'individuazione dei possibili responsabili.
Dall'unica e avara descrizione della chiesa che è contenuta nel testo di Marangoni (Delle memorie sacre, e profane dell'Anfiteatro Flavio di Roma volgarmente detto il Colosseo...,Roma, 1746) sappiamo solo che questa avrebbe dovuta essere fabbricata "sopra il piano, o loggia, ultimamente fatta ristorare", mentre si specificava esplicitamente che non era prevista demolizione dell'oratorio esistente. Posto che gli ultimi (e unici) restauri all'interno del Colosseo erano stati effettuati nel corso del 1742, oltre che nei muri di cinta, anche "nella loggia e piano superiore della chiesa, e gl'archi d'ingresso verso San Giovanni in Laterano", è possibile pensare che la progettata nuova chiesa auspicata dal Marangoni dovesse essere costruita nelle adiacenze dell'oratorio esistente, forse sul lato simmetrico rispetto al passaggio verso San Giovanni in Laterano, se non sul primo ripiano superiore della gradinata ("sopra il piano"), addirittura immediatamente al di sopra dell'oratorio ("piano superiore della chiesa").  

L’anfiteatro Flavio nei dipinti

 Viviano Codazzi (1603- 1672), Capriccio con colonne doriche e il Colosseo, ca. 1655, olio su tela, 75 x 90 cm, London, Chiswick House, inv. no. 88003069 (Fototeca Zeri)

Gaspar van Wittel, Veduta del Colosseo e dell'arco di Costantino, 1711, olio su tela, 47x 107 cm, Torino, Galleria Sabauda, inv. 833. Iscrizioni: firmato sul masso nell'angolo in basso a destra: "Gasparo van Witel Roma".
Questa veduta e il suo pendant -Il fianco del Colosseo, la meta Sudante e l'arco di Costantino, firmato e datato 1711- si trovavano nel Palazzo Reale di Torino almeno dal 1754, anno in cui sono espressamente ricordate, insieme a una veduta napoletana della Darsena, nella Descrizione manoscritta dei beni del palazzo. Le tre opere sono oggi conservate nella Pinacoteca Sabauda. Di questa Veduta del Colosseo sono note otto diverse redazioni: sette sono state pubblicate nella nuova redazione della monografia di Giuliano Briganti nel 1996, mentre una, inedita, di antica provenienza olandese, è stata venduta da Christie's a Londra (16 dicembre 1998, n. 69). La maggior parte di queste versioni fu eseguita per i viaggiatori settecenteschi, quei "grandturisti" d'Oltralpe che ne erano i destinatari più naturali. Come per il turista contemporaneo anche per il viaggiatore sei e settecentesco l'anfiteatro Flavio era infatti l'edificio più noto dell'antichità. E' l'idea stessa di Roma a identificarsi con il Colosseo. L'immagine di questo monumento, oggi così banalizzata dalle infinite riproduzioni, nasce e si diffonde presto proprio a partire da questa invenzione di Gaspar van Wittel, un pittore non a caso straniero. Naturalmente disegni e dipinti del Colosseo esistevano fin dal Cinquecento, ma nessun artista ne aveva fatto l'esclusivo protagonista di diversi quadri. La veduta è presa dall'orto dei frati di Santa Francesca Romana, ove sorgevano le rovine del Tempio di venere e Roma, luogo che corrisponde esattamente alla fine dell'attuale via dei Fori Imperiali. Tra il Colosseo e l'arco di Costantino, dietro la Vigna Paganica, si vedono i ruderi della Curia Ostilia con il giardino del Noviziato dei Missionari e il campanile e la chiesa dei Santi Giovanni e Paolo. Più a destra le tre cappelle di San Gregorio al Celio. Davanti all'arco di Costantino spunta la Meta Sudante, caratteristica fontana a forma di cono costruita intorno al I sec. d.C. e demolita nel 1936. Oltre l'arco si vedono le due arcate dell'acquedotto neroniano. A sinistra, sullo sfondo, si distinguono i due campanili di San Giovanni in Laterano. In primo piano, il pittore, seduto tra capitelli e rocchi di colonne, disegna accompagnato a un misterioso assistente. L'altro cavaliere, in abito rosso, che reca in mano una cartella di fogli potrebbe essere l'architetto Filippo Juvarra, con il quale, proprio in quegli anni, Gaspar van Wittel si recava spesso a disegnare nei Fori.
L. Laureati in Il Settecento a Roma, catalogo della mostra a cura di A. Lo Bianco e A. Negro, Roma, Palazzo Venezia, 10 novembre 2005- 26 febbraio 2006, Cinisello Balsamo/Milano, Silvana Editoriale, 2005, cat. 166, p. 269.


I Capricci di Giovanni Paolo Panini (per una ricca selezione di opere di questo artista ispirate alle rovine antiche di Roma, si veda il sito http://www.italianways.com/it/il-colosseo-nei-capricci-architettonici-di-pannini/ nel quale, tuttavia, mancano i riferimenti ai luoghi dove le opere sono conservate.

Giovanni Paolo Panini (Piacenza, 1691- 1765), Paesaggio con rovine classiche e il Colosseo, olio su tela, 1738, 112x 100cm,  Marble Hill House, inv. no. MH93.


Giovanni Paolo Panini (Piacenza, 1691- 1765), Vedute di Roma antica, olio su tela, 231 x 303 cm, firmato e datato I. PAUL PANINI Romae 1758, Paris, Musée du Louvre, inv. R.F. 1944-21, entrato al museo per legato della principessa Edmond De Polignac, nata Winnareta Singer (1944).

Giovanni Paolo Panini (Piacenza, 1691- 1765), Capriccio architettonico con il Colosseo, la Colonna Traiana, il Marco Aurelio, il Tempio della Fortuna Virile e l'Arco di Costantino dietro il Vaso Borghese del Louvre, 1735 ca., olio su tela, 70x103 cm, Piacenza, Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza spa, già nelle collezioni Colombari e Genero di Torino, poi in quella De Filippo a Milano.

cfr. Giovanni Paolo Panini 1691-1765, a cura di F. Arisi, catalogo della mostra, Piacenza, Palazzo Gotico, 15 marzo-16 maggio 1993, Milano, Electa, 1993, cat. 36, pp. 148-149. 


Luigi Valadier (Roma, 1726-1785) e Cesare Aguatti (attivo nella seconda metà del XVIII secolo), Cornice che racchiude una Veduta del Colosseo, 1775-1780, bronzo e metallo dorato, porfido, lapislazzuli, mosaico. Mosaico: 19,5 x 27,8 cm; cornice 34,8 x 34,9 cm; Parigi, Collezione M. e Mme Alain Moatti.
Questa cornicetta, di grande eleganza e raffinatezza d'esecuzione, potrebbe a ben vedere essere ascritta tra le opere eseguite da Luigi Valadier nel 1780 circa. I lavori di Valadier intorno a questa data, in un periodo durante il quale l'argentiere era all'apice della sua carriera, sono ormai nella maggio parte noti e bisogna subito dire che per ora non esistono documenti che confermino l'attribuzione di questo oggetto alla sua bottega, ma le somiglianze stilistiche con altre opere sicuramente di mano dell'artista romano inducono a far rientrare la cornice all'interno della produzione di Valadier. Quello che distingue infatti la bottega Valadier dalle altre attive a Roma in questi anni è l'uso di svariati materiali: pannelli di porfido e lapislazzuli talvolta insieme a oggetti di scavo come si può vedere nel presente arredo impreziosito dall'inserimento nel frontone di una moneta romana in bronzo raffigurante Vaspasiano, sotto il sui regno fu edificato il Colosseo (qui riprodotto in micromosaico realizzato da Cesare Aguatti). Più tardi Giacomo Raffaelli (1753- 1836) e altri artigiani faranno lavori simili, ma fu Valadier il padre di questo gusto ch avrà le sue più scenografiche realizzazioni nelle montature dei cammei antichi e in altri oggetti preziosi destinati a ornare i Musei, Sacro e Profano, voluti da Pio VI.
(John Winter, in Il Neoclassicismo in Italia. Da Tiepolo a Canova, catalogo della mostra Milano, Palazzo Reale, 2 marzo- 28 luglio 2002, a cura di F. Mazzocca, E. Colle, A. Morandotti, S. Susinno, Ginevra-Milano, Skira editore, 2002, p. 479 cat. VIII 19)

Luigi Mascelli (circa 1770- 1825), Placca con veduta dell'Anfiteatro Flavio, Roma, inizi del XIX secolo, pasta di vetro rossa, oro, mosaico minuto,  340 x 540 mm, Roma, Collezione L. Moroni.
La trama compositiva mostra caratteristiche tipiche della prassi operativa che si configura proprio agli esordi del XIX secolo. Alle regolari tessere quadrate, usate soprattutto per definire l'aria, si affiancano particelle di smalto a filo d'erba, circolari, ovoidali, rettangolari per dar corpo agli effetti di sfumato del terreno, degli alberi, delle strutture murarie.
(Il Mosaico, a cura di Carlo Bertelli, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, p. 278).

Hubert Robert (Paris, 1733- Paris 1808), Interno del Colosseo verso l'Arco di Costantino, 1759, 25 x 32 cm, New York, Metropolitan Museum of Art.

Hubert Robert (Paris, 1733- Paris 1808), Rovine romane col Colosseo, 1798, 50 x 59
Diversi anni dopo il suo rientro a Parigi, Robert continuò a dipingere i monumenti della Roma antica, che alla maniera del Pannini aggiunse la fantasia più accentuata. Le tre colonne del Tempio dei Dioscuri, il Colosseo, il Tempio detto di Antinino e Faustina, davanti al quale si vede chiaramente l'Ercole Farnese.


Hubert Robert (Paris, 1733- Paris 1808), Il Colosseo, olio su tela, 98 x 135 cm, 1762-73, San Pietroburgo, Ermitage, già nella collezione dei Conti di Ferzen nella stessa San Pietoburgo (1919).

Antonio Canal detto il Canaletto, Roma: il Colosseo, Penna e inchiostro bruno, acquerello grigio, 150 x 257 mm., Roma, Istituto Nazionale per la Grafica, inv. FN 507 (4143)
Cfr. Canaletto. Il trionfo della veduta, a cura di B. Anna Kowalczyk, catalogo della mostra Roma, Palazzo Giustiniani, 12 marzo- 19 giugno 2005, cat. 72, pp. 260-261.

Antonio Canal, detto il Canaletto, Roma: l'Arco di Costantino e il Colosseo, Penna e inchiostro bruno, acquerello grigio su traccia di matita, contornato a penna e righello, 178 x 253 mm., Paris, Petit Palais, Musée des Beaux-Arts de la Ville de Paris, inv. DDUT00976.
Cfr. Canaletto. Il trionfo della veduta, a cura diB. Anna Kowalczyk, catalogo della mostra Roma, Palazzo Giustiniani, 12 marzo- 19 giugno 2005, cat. 70, pp. 256-257.

Charles-Louis Clerisseau, (Paris, 28 agosto 1721- 9 gennaio 1820), Veduta del Colosseo, penna e inchiostro, 149 x 360 mm, 1750, acquistato da Caterina II il 5 maggio 1780. 

Carlo Labruzzi (Roma, 1748- 1817), Il Colosseo visto dal Palatino, olio su tela, 77 x 126 cm, Puskin, Tsarskoje Selo, Palazzo di Caterina, inv. ED-201-X
            Sopravvissuta alle devastazioni delle dimore dell'imperatrice Caterina II durante l'assedio di Stalingrado, l'opera è una delle rare testimonianze di quella fortunata produzione di vedute che fece di Labruzzi uno degli artisti più richiesti dai viaggiatori, soprattutto inglesi.
Concepiti come souvenir del Grand Tour, questi panorami di Roma si rifacevano a un repertorio limitato, con soggetti e punti di vista obbligati che coincidevano con le tappe degli itinerari turistici proposti dalle guide.
Benché legato alle convenzioni iconografiche di una lunga tradizione, anche il pittore di vedute lavorava dal vero per "aggiustare" la prospettiva, definire i dettagli, captare l'apparenza delle forme nella luce di un'ora precisa del giorno.
            In questa smagliante veduta del Colosseo, Labruzzi si è ritratto nel suo ruolo di artista reporter mentre disegna davanti al monumento, da una delle terrazze naturali del Palatino. Gli è accanto un gentiluomo che osserva con interesse il suo lavoro. Potrebbe trattarsi di uno dei nobili "dilettanti" che costituivano la sua abituale clientela. Anche la coppia elegante che passeggia tra le rovine dei palazzi dei Cesari allude alle passeggiate romane che scandivano i rituali dei grand-tourist.
            Quel labirinto di rovine che si stendeva per un chilometro sul colle del Palatino era il punto di arrivo di una delle più celebri promenades archeologiche della città, dopo la visita al Foro e agli Orti Farnesiani. L'ora più propizia era quella del tramonto:"La sera siamo andati nei giardini del Palatino...Lassù, sopra una terrazza all'aperto e all'ombra di magnifici alberi, dove sono stati disposti intorno capitelli ornati,...bassorilievi infranti e altri simili avanzi, come altrove si usa collocare tavole, sedie e panche per qualche lieto convegno all'aperto, abbiamo goduto a nostro talento una splendida serata" (Goethe, Viaggio in Italia, settembre 1787).         Da lassù la vista spaziava sugli spiazzi erbosi che circondavano il lato sud del Colosseo; a sinistra l'arco di Costantino, ancora in parte interrato, a destra le terme di Traiano sullo sfondo dei monti Sabini. Per dare profondità alla veduta, Labruzzi ha giocato sul contrasto tra la luminosità diffusa dei piani lontani e il proscenio in controluce, dove le ombre lunghe del tramonto rendono più intensi i colori autunnali della vegetazione cresciuta sulle rovine: ocra, terre, rossi bruciati e verdi opachi, come quello delle agavi che compaiono a contraddistinguere il luogo anche nelle vedute dei pittori inglesi, da 'Warwick' Smith a Towne, a Eastlake, che hanno ripreso il Colosseo dallo stesso punto di vista. Labruzzi unisce a una descrittività di gusto hackertiano una vivacità di tocco che caratterizza il suo stile anche nella tecnica prediletta dell'acquerello. Nel XIX secolo il dipinto si trovava nel palazzo di Alessandro a Tsarskoje Selo, costruito da Caterina II per il nipote, il futuro zar Alessandro I. In seguito fu depositato all'Ermitage e all'inizio del XX secolo è stato assegnato alle Collezioni storiche dei palazzi di Tsarskoje Selo.
E. Calbi, scheda in Un paese incantato. Italia dipinta da Thomas Jones a Corot, a cura di A.Ottani Cavina, catalogo della mostra Parigi, Galeries nationales du Grand Palais 3 aprile- 9 luglio 2001/ Mantova, Palazzo Te, 3 settembre- 9 dicembre 2001, ed. italiana Milano, Electa, 2001, p. 7, cat. 2).

François-Marius Granet (Aix-en-Provence, 1775- 1849)
«S’il est un monument de la Rome antique que Granet affectionne particulièrement, c’est bien le Colisée.» (Denis Coutagne, François-Marius Granet 1775-1849. Une vie pour la peinture, Paris, Somogy éditions d'art, 2008, p. 155) 

François-Marius Granet (Aix-en-Provence, 1775- 1849), Veduta del Colosseo con il palazzo imperatori e la piramide di Caio Cestio, 1802- 1810, olio su tela, 62,5 x 75 cm, Aix-en-Provence, Musée Granet, inv. 866-1-4.
Nei suoi Mémoires Granet ricorda come,  giunto a Roma nel luglio del 1802, decise "di cominciare con qualche studio  della natura. Scelsi il Colosseo. Questo monumento m'era apparso eccezionale per la sua forma straordinaria e per la vegetazione che avvolge le sue rovine e produce contro il cielo un effetto incantevole". SImbolo stesso di Roma, il Colosseo è il soggetto di numerosi studi e dipinti di piccolo formato eseguiti nel primo decennio, che mai rappresentano il monumento nella sua totalità ma sempre per frammenti, talvolta utilizzati come terrazza da cui dipingere il paesaggio romano. Adottando un punto di vista già sperimentato dal maestro Constantin, il dipinto di Granet riprende, attraverso un'arcata interna parzialmente superstite del secondo piano della zona sud del Colosseo, il panorama verso sud: il palazzo imperiale del Palatino sulla destra; le arcate dell'acquedotto neroniano che attraversano la valle; la piramide di Caio Cestio fuori porta San Paolo; il complesso di San Saba sull'Aventino.
Nei dipinti del primo decennio, ignorando le visioni favolose di Pannini o quelle tormentate di Piranesi, Granet esalta le reliquie architettoniche d'una Roma divenuta 'sublime' nelle sue rovine. Il Colosseo, deserto e desolato, s'impone come il punto di riferimento primordiale della Roma di Granet, la cui grandezza risiede nella sua capacità di esprimere una gloria antica o mitica nell'attuale stato di degrado. La 'profanazione' denunciata dal pittore nel 1829 davanti ai lavori di restauro effettuati al Colosseo conferma che l'interesse non è per l'oblio stesso della storia che questo incarna nel suo stato di rovina. Nuova rispetto al 'rovinismo' tardosettecentesco caro a Diderot è, nel confronto dell'uomo con la natura, la romantica desolazione del pittore. le rovine romane, che conservano misteriosamente il ricordo di un passato divino ed eroico, diventano luoghi per eccellenza di un nuovo modo di guardare, grazie al quale il mondo antico ridiventa natura: Questo sentimento di Roma come Natura e di Natura come Arte è ispirato da Chateaubriand, che esaltava nel 1804 la "inconcepibile grandiosità" della campagna romana, una terra "naturalmente" antica, che "dà forti emozioni". A Roma fino al 1824, Granet svolge un ruolo di guida nell'ambito della pittura di paesaggio, imponendosi presto su Boguet, Bidauld, Denis, Chauvin e "tutti coloro che hanno i mezzi di vivere in questo paradiso". La sua meditazione silenziosa sulle rovine di Roma si oppone, nel primo decennio, al fracasso delle guerre che devastano l'Europa. Afflitto dall'occupazione francese, Granet scriverà nel febbraio del 1810 di non ritrovare più la sua "Roma silenziosa": il suo "carattere religioso" era scomparso insieme al suo fascino. Roma è trasfigurata dalla sua vocazione fantasmagorica e romantica che sostituisce ai disegni al tratto di eredità davidiana una scrittura di ricerche luministiche e atmosferiche. I suoi frammenti ritagliati dal vero, innovativi e sfrontati nella stesura, nei tagli, e nella mancanza di figure e di eventi, si pongono come tappa fondamentale della via percorsa fra il classicismo di Valenciennes e il primo viaggio in Italia di Corot. Pittore del paesaggio romano, Granet si appropria di molteplici tradizioni: vedutismo, plein-airisme, classicismo, toccando la Roma antica e la Roma cristiana. Al 'genere delle rovine' preferisce 'quello degli interni'. Dalla lettura dei Martyrs di Chateaubriand si ispira per creare immagini di pietà moderna e della religione dei primi cristiani, venendo consacrato nel secondo decennio con il Coro dei Cappuccini come il pittore della vita monastica e conventuale.
La Roma cristiana e la Roma pagana non sono ignare l'una dell'altra e il messaggio è affermato dalla Veduta da un'arcata del Colosseo (Parigi, Louvre), inviata al Salon del 1806, che rappresenta in primo piano un'edicola delle stazioni della Via Crucis fatte realizzare da Benedetto XIV, poi distrutte nei deplorati restauri. Il dipinto ricordava come, con la consacrazione nel 1744 alla Passione di Gesù, il Colosseo, "luogo per la persecuzione e la leggenda avevano bagnato del sangue di tanti martiri", era stato "messo sotto la salvaguardia della religione".
A. Imbellone, in Maestà di Roma da Napoleone all'unità d'Italia. Universale ed Eterna Capitale delle Arti, a cura di S. Susinno, S. Pinto, L. Barroero e F. Mazzocca, Milano, Electa, 2003, p. 85, cat. I.7. 

François-Marius Granet (Aix-en-Provence, 1775- 1849), Nel Colosseo, un pittore al lavoro, olio su carta applicata su tela, 28,5 x 22,5 cm, Collezione privata.
            Ha ventisette anni il pittore provenzale Francois-Marius Granet quando nel 1802, da Parigi e dall'atelier di David, arriva finalmente a Roma per rimanervi più di vent'anni. "Decisi di cominciare con qualche studio d'après nature. Scelsi il Colosseo. Quel monumento mi era parso così bello per la forma architettonica e per il verde che avvolgeva le rovine e creava un effetto incantevole contro il cielo. Vi si trovano la violacciocca gialla, l'acanto con i suoi steli bellissimi e le foglie dentellate, il caprifoglio e le viole; insomma una tale quantità di fiori da poter comporre un trattato di botanica" (Granet, Mémoires, cap. IV). Scegliere il Colosseo non era un'idea originale, nuovo però era il ribaltamento prospettico e nuova era la colorazione romantica: le violacciocche e l'acanto, il caprifoglio e le viole, dimenticando l'anfiteatro imponente. L'Antico e la Storia riemergevano come Natura nello splendore di un luogo non ancora bonificato dagli archeologi né scarnificato dai diserbanti. Ecco dunque il pittore al lavoro, come tante volte ricorda nei suoi Mémoires: parasole, sgabello, cartella sulle ginocchia, perduto nel Colosseo fra i muschi, le pietre, le arcate crollanti.
            Il Colosseo, sentito come luogo struggente e sentimentale. E tante volte dipinto, come documenta anche un altro bozzetto del museo di Aix-en-Provence, con il pittore che se ne va, dopo avere disegnato fra i ruderi, cilindro, portfolio, bastone da passeggio. Del grandioso anfiteatro romano, Granet amava stralciare qualche frammento, che riversava nella sua scrittura corsiva. L'impaginazione, ben collaudata, è la stessa dei quadri d'interni ispirati alle solitudini claustrali e monastiche che gli diedero la celebrità ("Granet peintre des Capucins" come si vede dal dipinto di Collezione privata): un'arcata in primo piano in penombra che incornicia saldamente l'immagine; poi la luce che dilata lo spazio e apre sulla lunetta azzurra del cielo. A. Ottani Cavina scheda in Un paese incantato. Italia dipinta da Thomas Jones a Corot, a cura di A.Ottani Cavina, catalogo della mostra Parigi, Galeries nationales du Grand Palais 3 aprile- 9 luglio 2001/ Mantova, Palazzo Te, 3 settembre- 9 dicembre 2001, ed. italiana Milano, Electa, 2001, p. 20, cat. 10. 
François-Marius Granet (Aix-en-Provence, 1775- 1849), Pioppi visti da un'arcata del Colosseo, Aix-en-Provence, Musée Granet.
François-Marius Granet (Aix-en-Provence, 1775- 1849), Monaci fra le rovine del Colosseo, Collezione privata.

Jean-Auguste Dominique Ingres, Ritratto di Joseph-Antoine Moltedo, 1810 circa, olio su tela, 75,3x 58,1 cm, New York, Metropolitan Museum of Art.

Questo, insieme al Ritratto di Charles Cordier (1811, Parigi, Louvre) dello stesso Ingres, si ricollegano alla formula inaugurata con il ritratto di Granet (conservato ad Aix-en-Provence, Musée Granet): un primo piano sullo sfondo di un paesaggio italiano. Grazie alla precisazione fornita dalla figlia di Cordier al momento di donare al Louvre il ritratto del padre, abbiamo la certezza che Granet fu anche in questo caso l'autore dei due paesaggi, il Colosseo in un caso e il tempio della Sibilla a Tivoli nell'altro. La veridicità di questa precisazione non può essere messa in dubbio, poiché una confessione del genere non serviva certo ad aumentare il valore del quadro. D'altro canto, la perfetta analogia di stile non lascia dubbi sulla paternità di un unico artista per i tre paesaggi. Moltedo era direttore delle poste di Roma. Ingres lo ritrae insistendo sull'opposizione dei materiali e ricorrendo ad una scenografia in cui le piccole pennellate di azzurro caldo si armonizzano con i riflessi giallastri del cappotti di renna. Il ritratto diventa così gioviale, laddove il modello perdeva in eleganza naturale. 
Jean-Auguste Dominique Ingres, Portrait de Granet, 1809, cm 74,5 x 63,2, Aix-en-Provence, musée Granet.

Jean-Baptiste Camille Corot, Roma, il Colosseo dalle arcate della basilica di Costantino, olio su carta applicata su tela, 23,2 x 34,8 cm, scritta in basso a sinistra: "vente Corot" (sigillo della vendita postuma del 1875); datato in basso a destra: "Xbre 1825", Parigi, Musèe du Louvre.
            Quando arriva a Roma, nel 1825, Corot è reduce da un triennio di studi nel corso del quale ha approfondito la tecnica della pittura a olio, il disegno dei maestri, i precetti teorici del paesaggio e la rappresentazione della natura en plein air. Grazie a Michallon e a Jean-Victor Bertin, ha acquisito un'innegabile abilità nel trattamento della luce, dello spazio e dei volumi; lo dimostrano alcuni studi di paesaggio dipinti a Parigi, in Normandia o nella foresta di Fontainebleau prima della sua partenza. In Italia gli insegnamenti dei suoi maestri saranno messi alla prova nel rapporto diretto, quotidiano e radicale con la natura rigogliosa e mutevole della penisola; un confronto che si rivelerà fondamentale per i successivi orientamenti di tutta la sua carriera di paesaggista.
Il soggiorno non era però iniziato nel migliore dei modi, a causa del maltempo che gli aveva impedito di lavorare durante tutta la prima metà di dicembre:" Non posso parlare del clima di Roma; da quando sono qui, piove sempre. Ma questo non mi stupisce; me l'aspettavo...", scrive al suo compagno Abel Osmond. Ma fin dalla prima schiarita, fedele alla tradizione, Corot dà immediatamente inizio alle sedute di lavoro davanti alle rovine romane, scegliendo come soggetti i dintorni del Foro e del Colosseo, per poi spostarsi verso la periferia della città. Proprio nel dicembre del 1825, secondo l'indicazione della data, Corot dipinse questo studio con il Colosseo inquadrato dagli archi della basilica di Costantino, archi che nascondendo parzialmente l'antico anfiteatro, definiscono la struttura geometria e tripartita della veduta. Ma risale probabilmente allo stesso periodo anche lo studio realizzato dal punto di osservazione opposto, con la basilica di Costantino vista dal Colosseo. Le due opere rievocano le stesse atmosfere umide e nuvolose e identifica è anche la gamma cromatica volontariamente fredda, basata sui toni ocra, marrone e verde.
Sebbene il soggiorno sia solo all'inizio, questi due studi rivelano la maturità artistica di Corot, la sua consumata abilità nella scelta dell'inquadratura, ma anche la sua cura nel trattamento della luce e delle ombre che definiscono i volumi architettonici.
Il motivo delle arcate, di grande efficacia plastica e utile a suggerire un'impressione di profondità, era già stato utilizzato da Corot in altri dipinti precedenti -Parigi, il vecchio ponte Saint-Michel (Beauvais, Musée Départemental de l'Oise) e soprattutto Moret (Seine-et Marne), gli archi di ponte- prima di essere sfruttato nuovamente durante il soggiorno in Italia (Rovine del tempio Steatore a Roma, collezione privata) e infine nelle opere più tarde (Il castello di Maintenon, collezione privata). Il pittore ha chiaramente ripreso un'inquadratura ispirata alle opere dei suoi maestri e predecessori, facendo riferimento ai disegni di Michallon con La basilica di Costantino (Parigi, Louvre). Anche quest'ultimo, del resto, aveva utilizzato un'analoga struttura compositiva nelle Volte del Colosseo al tramonto e nella graziosa rappresentazione di Villa Medici vista attraverso un portico entrambe a Orléans (Musée des Beaux-Arts). Il motivo si ritrova poi, in questi anni, in altri colleghi di Corot. La novità di Corot sta nel modo di concepire un'immagine di grande lucidità e realismo, immune da effetti o artifici pittoreschi, privilegiando la densità della materia pittorica, i giochi d'ombra, i contrasti tra la fluidità del cielo e la solidità delle architetture. Lontano dalla veduta turistica, e da ogni indulgenza estetizzante, questo studio preannuncia pienamente gli esiti futuri del lavoro di Corot in Italia, la sua costante vocazione alla sintesi e al realismo.
V. Pomarède, scheda in Un paese incantato. Italia dipinta da Thomas Jones a Corot, a cura di A.Ottani Cavina, catalogo della mostra Parigi, Galeries nationales du Grand Palais 3 aprile- 9 luglio 2001/ Mantova, Palazzo Te, 3 settembre- 9 dicembre 2001, ed. italiana Milano, Electa, 2001, p. 191, cat. 115.
Jean-Baptiste Camille Corot, Studio del Colosseo o Veduta del Colosseo dai giardini Farnese o Il Mezzogiorno, marzo 1826, olio su carta incollata su tela, 30 x 49 cm, Firmato e datato in basso a destra (iscrizione forse apocrifa secondo Hélène Touissant): Corot mars 1826.
            "Per quindici volte di seguito torna a sedersi, alla stessa ora, nello stesso posto e, su un piccolo riquadro di tela, appena tre volte più grande della mano, descrive pazientemente nei dettagli lo splendore del luogo che ha scelto come modello. Di fronte a lui il Colosseo si erge al centro dell'antica città e la sua massa rossa e calda domina l'orizzonte blu delle montagne. Se la luce cambia, a questo studio ne sostituisce un altro e senza mai lasciare la terrazza dei giardini Farnese, si limita a cambiare il proprio punto di vista e prosegue ostinatamente nel compito che si è prefisso". Questa descrizione fatta da Etienne Moreau-Nélaton delle circostanze relative alla realizzazione di una serie di tre studi dipinti da Corot nei giardini Farnese a Roma è basata su testimonianze dirette di Alfred Robaut e di Théophile Sylvestre, che si limitarono ad annotare i ricordi dell'artista stesso. Non sembrano perciò sussistere dubbi circa l'esecuzione dal vero e l'orientamento topografico di questi studi; tuttavia gli scopi del lavoro di Corot e le motivazioni che lo spinsero a dipingere tali opere in serie non sono ancora stati completamente chiariti.
            Dai giardini Farnese (Orti Farnesiani), edificati nel Cinquecento sopra l'antico palazzo di Tiberio e fonte d'ispirazone per molti pittori di vedute del Settecento, si gode la più bella vista su quel sito unico costituito dal Foro romano e dalle rovine che lo circondano, A pochi passi dal Palatino, dall'arco di Costantino e dal Colosseo, questa collina offre una splendida veduta di Roma, "la città per eccellenza", le cui rovine antiche avevano spinto Valenciennes a scrivere che " la Roma moderna non è che l'ombra della Roma antica". L'artista raccomandava fra l'altro ai suoi allievi di seguire le tracce di Claude Lorrain (Veduta di Campo Vaccino, Parigi, Musée du Louvre) e di recarsiin quel luogo per dipingere la città. Lui stesso mise in pratica tale suggerimento: presso il Louvre si trova infatti una Veduta del Colosseo da lui dipinta proprio dallo stesso punto di vista di quella eseguita da Corot.
            Qualche anno più tardi, intorno al 1822, Michallon, allievo di Valenciennes e professore di Corot, dipinse anch'egli (sebbene forse in studio, al suo ritorno a Parigi) una Veduta del Colosseo, dalla stessa angolazione. E' quindi probabile che Corot abbia avuto modo di studiare durante le ore di lavoro presso l'atelier del maestro tale studio del Colosseo. D'altra parte il sito era, sin dalla metà del Settecento, meta prediletta dagli artisti che soggiornavano a Roma, basti citare fra gli altri alcuni pittori vicini a Corot, come Bidauld o Bertin, che scelsero anch'essi questo luogo per eseguire alcuni studi.
Corot, dunque, non faceva che seguire la tradizione quando nel marzo 1626, dopo aver lasciato Piazza di Spagna, dove risiedeva, si recava a lavorare davanti al Foro e al Colosseo visti dall'alto dei giardini. Forse gli capitava d'incontrare alcuni dei suoi colleghi a Roma in quel periodo, come il giovane Bracassat, ospite della Villa Medici in qualità di vincitore del secondo Prix de Rome per il paesaggio storico, o il tedesco Ernst Fries che proprio allora dipingeva come lui la veduta dai giardini Farnese. Sembra già più originale la decisione di Corot di iniziare, con tutta probabilità contemporaneamente, tre studi dal vero, eseguiti da tre angolazioni diverse e a tre diversi momenti del giorno.
            E' vero anche che, sin dal 1708, Roger de Piles consigliava ai giovani allievi paesaggisti di studiare "nella stessa maniera (dal vero) gli effetti del cielo nelle diverse ore del giorno, in stagioni diverse e con diverse disposizioni delle nuvole...", e numerosi paesaggisti del Settecento (a cominciare dal più celebre, come Joseph Vernet) avevano applicato tale tradizione classica, riprendendo nei quadri dipinti in studio il tema delle ore del giorno, a quel tempo molto in voga, come pure quello delle stagioni.
            Allo stesso modo, un secolo dopo, Valenciennes descriveva dettagliatamente le quattro ore del giorno più propizie allo studio del paesaggio:"Le divisioni adottate dagli artisti per le quattro parti del giorno sono:il mattino, il mezzogiorno, la sera e la notte". Presso lo studio di Michallon e poi in quello di Bertin, entrambi ferventi ammiratori di Valenciennes, Corot dovette apprendere le caratteristiche proprie della luce umida e fresca del mattino, quell'ora "in cui il sole, appena sorto lungo la linea dell'orizzonte, irradia la sua luce brillante su tutti gli oggetti della natura conferendo loro il sentimento della vita a mano a mano che il suo calore benefico si accresce". Gli erano state inoltre impartite raccomandazioni utili a rendere la luminosità intensa di mezzogiorno, quando "la natura (è) in preda al fuoco divorante della canicola (e quando) le ombre dei corpi sono appena visibili". L'artista aveva inoltre potuto copiare diversi studi di Michallon e di Bertin dipinti la sera, nell'ora in cui "gli oggetto rischiarati assumono una tinta dorata che contrasta singolarmente con le ombre bluastre che si osservano sempre al tramonto del sole".
            Dunque, quando cominciò a lavorare nei giardini Farnese, Corot aveva ben presenti questi precisi insegnamenti riguardanti la necessità per il giovane pittore di abituare l'occhio e la mano a cogliere gli effetti di luce a seconda delle ore del giorno, e il suo approccio sembra prima di tutto didattico. Corot procede nel suo lavoro con metodicità e gli orientamenti da lui scelti per ciascuno degli studi seguono fedelmente quelli del sole: al mattino, guardava la chiesa di San Sebastiano a est, a mezzogiorno il Colosseo, a nordest, e la sera, si volgeva nettamente verso ovest e il Foro. Il giovane artista metteva così in pratica gli insegnamenti ricevuti a Parigi. (Corot 1796- 1875, a cura di M. Pantazzi, V. Pomarède, G. Tinterow, catalogo della mostra Parigi, Galeries Nationales du Grand Palais, 28 febbraio/ 27 maggio 1996- Ottawa, Musée des Beaux-Arts du Canada, 21 giugno/ 22 settembre 1996- New York, The Metropolitan Museum of Art, 22 ottobre 1996/ 19 gennaio 1997, edizione italiana del catalogo Milano, Electa, 1996, pp. 82-83, cat. 8).

Ippolito Caffi,  Veduta del Colosseo, olio su tela, 28 x 42,2 cm, firma in basso a destra: "Caffi", Collezione privata e Veduta notturna del Colosseo, olio su tela, 28 x 42,2 cm, firma in basso a sinistra: "Caffi", Collezione privata.
Le due vedute a pendant sono probabilmente opere di poco precedenti al viaggio in Oriente, collocabili quindi intorno al 1843, come gli esemplari della Galleria di Ca' Pesaro. In queste tematiche si evidenzia che il rapporto di Caffi con l'antico lo allontana sempre più decisamente da ogni tradizione vedutistica settecentesca, lasciandogli la possibilità di sfruttare il lato più "romantico" del suo talento.
Nella veduta diurna la penombre del primo piano su cui si inseriscono anche le figure lascia mano a mano il campo a una solarità piena e dorata che accarezza il monumento e ne trasmette l'imponente storicità. Le pietre assumono un colore bruno che invade e domina la scena; ogni altra variazione tonale gli è subordinata. Una apparente monocromia analoga, e ancora più decisa, è nella veduta notturna: l'artista in questo caso si pone in un punto di ripresa che gli consente la visione dell'interno della sua globalità. Il Colosseo riempie lo spazio, esce dai contorni ed avvolge lo spettatore. Come sempre di notte, l'artista forza la mano ed esprime mistero e magia: contribuisce a questo, immota, la luna piena che qui diviene, diversamente che nel Pantheon di notte, compagna di meditazione. Rispetto a quest'ultimo dipinto citato, infatti, il sentimento che si percepisce è sereno, dolce, senza violenza. Nel tono grigio adottato, modulato in ombreggiature e cangiantismi si leva -gioco a effetto- il rossore del fuoco che si intravede tra gli archi del fondo, delicato anch'esso. A.Scarpa in Caffi. Luci del Mediterraneo (catalogo della mostra Belluno, Palazzo Crepadona, 1 ottobre 2005- 22 gennaio 2006/ Roma, Museo di Roma-Palazzo Braschi, 15 febbraio- 2 maggio 2006), a cura di A. Scarpa, Milano, Skira, 2005, p. 279, cat. 74-75)
Ippolito Caffi, Interno del Colosseo con fuochi di bengala, 1845 circa, olio su carta applicata su tela, 25,5 x 41,5 cm, Roma, Museo di Roma, inv. MR5694
            La visione notturna del Colosseo e la passeggiata alla luce della luna all'interno dell'anfiteatro erano diventate nei primi decenni dell'Ottocento esperienze irrinunciabili per i grandi viaggiatori e per l'élite intellettuale permeata dallo spirito romantico dell'epoca, tanto da offuscare l'interesse puramente archeologico per lo straordinario monumento dell'età Flavia.
Da Goethe a Madame de Stael, da Lord Byron a Edith Warthon, la visita di notte al Colosseo era apparsa come un'esperienza esclusiva e affascinante, per la quale valeva la pena affrontare i pericoli dovuti alle scarsissime condizioni di sicurezza nelle quali versava il monumento.
            La relativa solitudine di una passeggiata romantica, però, veniva bruscamente interrotta quando il Colosseo si trasformava in un luogo di giochi pirotecnici ai quali poteva assistere una folla festante ed entusiasta. Fuochi e girandole erano caratteristici strumenti spettacolari delle feste romane fin dal XVII secolo, dalla famosa girandola di Castel Sant'Angelo, in occasione della ricorrenza dei Santi Patroni di Roma, all'illuminazione della cupola di San Pietro durante le festività pasquali. Certamente, però, il finto incendio all'interno del Colosseo che animava di rossi bagliori le mura, gli archi e i pilastri rappresentava una visione particolarmente emozionante per quanti si assiepavano in prossimità dell'edificio.
            Per raffigurare la scena Caffi scelse un punto di vista ravvicinato ponendo in primo piano le grandi sagome scure di tre grandi pilastri diruti e accentuò la drammaticità dell'immagine contrapponendo al nero delle ombre i rossi bagliori delle superfici infuocate, i bianchi accecanti delle luci al centro della scena e i verdi riflessi sotto le volte degli archi. Evidentemente, oltre all'interesse per gli effetti teatrali della festa notturna, Caffi, artista e patriota, ha voluto manifestare, con la giustapposizione delle tre cromie dominanti, un chiaro significato politico.
F. Pirani, in Caffi. Luci del Mediterraneo (catalogo della mostra Belluno, Palazzo Crepadona, 1 ottobre 2005- 22 gennaio 2006/ Roma, Museo di Roma-Palazzo Braschi, 15 febbraio- 2 maggio 2006), a cura di A. Scarpa, Milano, Skira, 2005, p. 280, cat. 77.

Ippolito Caffi, Fuochi di bengala al Colosseo, olio su tela, 40 x 60, firma in basso a destra:" Caffi", Collezione privata
            Tre sono le versioni note di questo soggetto: una al Museo di Roma (scheda precedente), e una alla Galleria di Ca' Pesaro, tutte di dimensioni minori; una copia è comparsa alcuni anni or sono sul mercato delle aste. La bellezza della raffigurazione trae ulteriore forza dalla magicità del luogo dove si sommano realtà, storia e mistero in un'atmosfera irreale e fatata. Le tre figure in primo piano, ben reali ed evidenti, intente nel loro intimo dialogo, sono il vero, il resto diventa sogno: anche la folla sullo sfondo, vivida nel biancore del fumo, diviene una massa indistinta e appena accennata di cui è arduo individuare i contorni. Volutamente l'artista accentua i contrasti e le rovine al centro della scena assumono la valenza di una struttura scenografica teatrale che fa da quinta ai personaggi dinnanzi a noi. I bruni carichi dei primi piani, impastati col nero, non impediscono una precisa resa architettonica, mentre, per contrasto, la luminosità dello sfondo, cangiante e fluida nel suo scorrere dai rossi, ai rosa, ai bianchi, diventa più indefinita e, sapientemente, catalizza l'attenzione. Sono dipinti come questi che avvalorano la frattura netta che esiste tra il vedutismo di Caffi e quello settecentesco, da cui necessariamente lo si deve far nascere. Ippolito, pur sublime nel saper cogliere gli effetti luministici delle albe e dei tramonti, è indubbiamente insuperabile nelle feste e negli spettacoli notturni: la sua capacità di rendere l'emozione dei contrasti, dei bagliori improvvisi, delle luci violente che fanno sobbalzare, anticipa di molti decenni le soluzioni di sapienti rese cinematografiche.
A. Scarpa, in Caffi. Luci del Mediterraneo (catalogo della mostra Belluno, Palazzo Crepadona, 1 ottobre 2005- 22 gennaio 2006/ Roma, Museo di Roma-Palazzo Braschi, 15 febbraio- 2 maggio 2006), a cura di A. Scarpa, Milano, Skira, 2005, p. 280, cat. 78.

Ippolito Caffi, Il Colosseo visto dall'alto, 1855, olio su carta applicata su tela, 54,5 x 89,5 cm, firma e data in basso a destra "Caffi/Roma 15 dicembre 1855", Roma, Museo di Roma, inv. MR5679
Fervente patriota, Caffi lasciò Roma nel 1848 per accorrere in difesa di Venezia, che era insorta contro gli austriaci. Segnato nella lista dei quaranta proscritti dall'Austria, insieme a Nicolò Tommaseo e a Daniele Manin, soggiornò prima a Genova e poi a Torino e a Nizza, stabilendosi a Parigi nel 1854, dopo un viaggio in Inghilterra e in Spagna. Quando, nell'agosto del 1855, Caffi ritornò a Roma, la stampa lo accolse trionfalmente, nonostante i suoi trascorsi rivoluzionari. Il primo quadro di questa sua seconda stagione romana è Il Colosseo visto dall'alto, firmato e datato 15 dicembre 1855, che sarà esposto insieme ad altre opere di soggetto parigino, orientale, veneziano e romano, alla "Mostra degli Amatori e Cultori di Belle Arti" del 1856.
Il "Giornale di Roma" dedicò all'artista per l'occasione un numero speciale intitolato Recenti pitture di Ippolito Caffi, scritto da Giuseppe Checchetelli. Sta in mezzo a spazioso campo nel cui fondo ravvisi la Villa Mattei, il Palazzo de' Cesari, la Piramide di Cestio".
L'entusiasmo mostrato dal Checchetelli nella sua descrizione della pittura è ampiamente giustificato dal suggestivo effetto raggiunto dal pittore nel rendere efficacemente l'inusuale prospettiva dall'alto dell'anfiteatro Flavio che lascia la possibilità allo sguardo di spaziare, oltre l'arena illuminata dalla calda luminosità della tavolozza impiegata, in un ampio panorama di Roma, appena velato da una leggera foschia, che dal profilo di Santo Stefano Rotondo attraversa il Celio con San Gregorio, la piramide di Caio Cestio, fino al Palatino con le rovine dei palazzi imperiali e la chiesa di San Bonaventura. L'interno del monumento, insieme allo studio di una luminosità naturale, dove si alternano le zone d'ombre a quelle assolate, rivela un'attenzione al vero nei particolari delle edicole per la Via Crucis e della croce, entrambe edificate per volere papale quando il Colosseo venne consacrato alla Passione di Cristo. Eppure l'originalità della pittura, superiore a molte della numerosissima serie di vedute del Colosseo, ritratto più volte da Caffi nelle diverse ore del giorno, finanche di notte illuminato dai fuochi del bengala, potrà essere in parte ridimensionata confrontando il taglio compositivo del quadro con quanto veniva contemporaneamente prodotto in ambito fotografico e, in particolare, con l'immagine del "pittore-fotografo" padovano Giacomo Caneva, Veduta parziale del Colosseo visto dall'alto, del 1851.
F. Pirani in Caffi, Luci del Mediterraneo (catalogo della mostra Belluno, Palazzo Crepadona, 1 ottobre 2005- 22 gennaio 2006/ Roma, Museo di Roma-Palazzo Braschi, 15 febbraio- 2 maggio 2006), a cura di A. Scarpa, Milano, Skira, 2005, pp. 278-279, cat. 73)

Ippolito Caffi, Interno del Colosseo, 1857 circa, olio su carta applicata su tela, 33,2 x 47,2 cm, cartiglio sul verso: "Roma. Interno del Colosseo", Roma, Museo di Roma, inv. MR5694
Di poco successivo al famoso dipinto di Caffi Interno del Colosseo visto dall'alto, questa veduta della profonda cavea dell'anfiteatro sembra essere un proseguimento ideale dell'innovativa ricerca prospettica avviata dall'artista qualche mese prima. L'opera venne apprezzata dalla critica contemporanea, che scrisse a proposito "le fughe dei colonnati e degli archi, gli sfondi e gli scorci, tagliati da un fascio di raggi solari, sorprendono per l'intelligenza del punto di prospettiva, e per l'economia del segno e per l'intreccio elegante di linee rette e curve". La tela presenta vivaci effetti cromatici nella contrapposizione tra la luce che inonda il cielo e si incunea tra i pilastri e gli archi sullo sfondo e l'ombra scura che avvolge i primi piani colorando di toni violacei l'interno inanimato del monumento.
Anche in questo. come in molti altri dipinti, è sorprendente la somiglianza con alcune fotografie coeve. Se da una parte, infatti, le vedute del Colosseo subiscono una certa standardizzazione ponendosi quali souvenirs di facile commercializzazione per un pubblico sempre più vasto, dall'altra il confronto con alcune calotipie può far ipotizzare una frequentazione di Caffi, non solo episodica, con l'ambiente dei pittori-fotografi che diedero vita alla "Scuola romana di fotografia". Questi fotografi, peraltro, si incontravano proprio al caffè Greco dove Caffi aveva dipinto, qualche anno prima, alcune sale con le vedute di Venezia e di Roma e, soprattutto, era diventato, a partire dagli anni quaranta, il suo recapito postale.
In particolare per quest'opera è istituibile una significativa comparazione con gli studi del pittore prospettico e fotografo padovano, ma attivo a Roma, Giacomo Caneva, che qualche anno prima aveva eseguito diverse calotipie del Colosseo, inquadrandolo in insolite prospettive analoghe però a quelle utilizzate da Caffi in questi dipinti.
F. Pirani in Caffi, Luci del Mediterraneo (catalogo della mostra Belluno, Palazzo Crepadona, 1 ottobre 2005- 22 gennaio 2006/ Roma, Museo di Roma-Palazzo Braschi, 15 febbraio- 2 maggio 2006), a cura di A. Scarpa, Milano, Skira, 2005, p. 279, cat. 76.