mercoledì 16 gennaio 2013

Il "ritratto d'amicizia" dal Cinquecento all'Ottocento. Una traccia.

Dedicato alla prof.ssa Maria Raffaella Cornacchia, amica e collega, che mi ha ispirato la trattazione di questo tema
Vincenzo Foppa, Fanciullo che legge Cicerone, affresco, 101,6 x 143,7 cm, Londra, Wallace Collection. Mi pare corretto fare precedere un sia pur breve percorso sul ritratto d’amicizia con l’immagine di un affresco, opera del pittore lombardo Vincenzo Foppa. Staccato dall’edificio che aveva la funzione di Banco Mediceo, a Milano, fu realizzato intorno al 1464. Il dipinto è emblematico del recupero dell’antichità classica attuato nel corso del XV, e in origine faceva parte di ciclo dedicato alla storia romana descritto dall’architetto Antonio Averlino detto il Filarete nel suo Trattato di architettura. Raffigura infatti un giovane ragazzo intento a leggere e, a giudicare dall’iscrizione alle sue spalle, si tratterebbe di Cicerone, la cui passione per la lettura fin dalla tenera età è celebrata da Plutarco nelle Vite parallele. Ecco dunque al perché del coinvolgimento di un’immagine tanto lontana dall’argomento qui trattato: il contributo di Cicerone all’elaborazione del pensiero sull’amicizia in età rinascimentale e poi barocca fu fondamentale. Il suo “De amicitia” sottolinea come quel tipo particolare di rapporto possa definirsi tale soltanto “quando il carattere si è formato e l’età è matura”. Coerente con le implicazioni più profonde di questa visione è l’immagine che scaturisce da alcuni ritratti eseguiti da Raffaello. La straordinaria intensità di alcune effigi di poeti ed umanisti rivela la loro intensa amicizia con l’artista.
Al pennello di un Raffaello trentatreenne data il disperso Ritratto di Antonio Tebaldeo, noto attraverso una riproduzione fotografica, di una tale somiglianza da risultare a Pietro Bembo “tanto naturale che egli non è tanto simile a se stesso quanto gli è quella pittura. Et io per me non vidi mai sembianza veruna più propria”. L’efficacia rappresentativa, messa in luce anche da una tavolozza quanto mai sobria e povera di colori costosi e appariscenti, è ottenuta anche grazie ad un’istintiva capacità di introspezione psicologica, che va oltre l’esteriorità del modello.
Il Doppio ritratto di Andrea Navagero e Agostino Beazzano conservato alla Galleria Doria Pamphilj di Roma, fu realizzato poco prima della partenza del Navagero per Venezia, dove avrebbe ricoperto la carica di bibliotecario della Rapubblica. L’opera appartenne a Pietro Bembo, il quale in una lettera al cardinal Bibbiena datata 3 aprile 1516 annuncia l’escursione che il gruppo di amici (Navagero, Beazzano, Bembo stesso, e Castiglione) stavano per intraprendere alla Villa Adriana di Tivoli. Ad organizzarla era ancora una volta Raffaello che, non più tardi dell’anno prima, era stato nominato soprintendente alle antichità romane da papa Leone X. Nel dipinto oggi alla galleria Doria Pamphilj, il legame intellettuale ed affettivo è suggerito dalla prossimità dei due letterati, sia tra loro sia con lo spettatore divenuto interprete di una osservazione partecipata e interlocutoria. Il principale spettatore era forse il Bembo, che intorno al 1530 possedeva la tela nella sua casa padovana.
Capolavoro della tarda attività del Sanzio è il Ritratto di Baldassarre Castiglione, del Musée du Louvre di Parigi. L’autore del Cortegiano appare seduto, e l’altezza degli occhi coincide con il punto di vista stabilito dal pittore. La forte intimità suggerita dal taglio e della prossimità ai margini del supporto, sembrano cogliere il Castiglione in una pausa di silenzio durante una conversazione. Quando nel 1516 il Castiglione lasciò Roma per ritirarsi a Mantova in conseguenza della crisi politica tra Leone X e il duca d’Urbino di cui era ambasciatore, portò con sé il ritratto considerandolo tra gli oggetti più preziosi. In qualità di ambasciatore di Federico Gonzaga presso la corte papale, tre anni dopo tornò a Roma. A Mantova lasciò Camillo, il figlio primogenito avuto con Ippolita Torello, sposata nel 1517. La lontananza dalla famiglia ispirò al Castiglione una elegia latina, scritta come se fosse stata a lui indirizzata dalla moglie. In alcuni versi il riferimento al dipinto di Raffaello appare esplicito: Sola tuos vulnus referenz Raphaelis imago/ Picta manu, curas allevat usque meas./ Huic ego delicias facio, arrideoque iocorque,/ Alloquor, et tamquam reddere verba queat/ Assensu nutuque, mihi saepe illa videtur/Dicere velle aliquid, et sua verba loqui./ Agnoscit, balboque patrem puer ore salutat,/ Hoc solor, longos decipioque dies. (Solo l’immagine di Raffaello riportando i tuoi lineamenti/ nel dipinto, allevia le mie preoccupazioni./ A questa rivolgo sguardi affettuosi, le sorrido e scherzo/ le parlo, e come se potesse rispondermi/ con il cenno del capo, spesso mi sembra che quella / voglia dire qualcosa, e parli con le tue parole./ Il bimbo riconosce il padre e lo saluta con il suo balbettio infantile,/ ciò mi è di conforto e abbrevia i lunghi giorni”.) Gli accordi cromatici sono di grande raffinatezza: la camicia bianca dialoga con una sinfonia di accordi di grigio, di nero, di ocra, di tortora, su cui spiccano l’incarnato rosato e gli occhi, di penetrante intensità.
Nel Ritratto di due amici della Fondazione Cini di Venezia (88, 68 cm), del 1522, il fiorentino Pontormo mette in luce la sua personalissima rilettura del naturalismo sartesco, introducendo elementi derivati dalla lucida e talvolta spietata “realtà” düreriana.

Non ci sono prove che Michelangelo Buonarroti dipinse ritratti, a differenza del suo primo maestro Domenico Ghirlandaio che a quel genere si dedicò molto, sia su tavola che ad affresco. Tuttavia, vi è un disegno al British Museum nel quale un rapporto di particolare affetto nei confronti del soggetto ha condotto il Buonarroti a tracciare su di un foglio il volto di un giovane, quell'Andrea Quaratesi, fiorentino, che per qualche tempo gli fu allievo. Nel sito del British Museum si legge According to Giorgio Vasari, one of Michelangelo's biographers, he was most reluctant to make portrait drawings 'unless the subject was one of perfect beauty'. This is the only surviving portrait drawing by Michelangelo. Drawn in black chalk, it shows the head and shoulders of a young man, Andrea Quaratesi (1512-85) who was one of several noble youths much admired by Michelangelo. Though from a noble Florentine family, it is possible that Michelangelo tried to teach this young Florentine how to draw, as the artist wrote on a drawing now in Oxford: 'Andrea, have patience'. The young man wears contemporary dress, a cap flat on his head, as he looks out to his left. The drawing is lit from the left so that the delicate shadows are formed by small, careful parallel strokes of chalk.
http://www.britishmuseum.org/explore/highlights/highlight_image.aspx?image=ps166366.jpg&retpage=21657  Il genere del ritratto veniva dunque praticato di rado dal grande artista, e sempre "per amore e mai per obrigo", come egli stesso dichiarò.
Non diversamente da quello che fu per il più autorevole allievo di Michelangelo, Daniele Ricciarelli detto Daniele da Volterra, più volte indicato col titolo di "braghettone" per essere intervenuto sul Giudizio Universale della Sistina al fine di emendare le nudità ritenute più sconvenienti. Nel celebre disegno conservato al Teylers Museum di Haarlem, Daniele da Volterra traccia il volto di un uomo dall'espressione malinconica, inequivocabilmente identificabile con quello di Michelangelo. "Dopo aver preso da vivo e fermato sulla carta l’espressione grave e malinconica dell’ormai anziano maestro, Daniele procede ad una messa  a fuoco puntuale del ritratto che dovrà poi trasferire, mediante la tecnica dello spolvero, su di un cartone definitivo; in questa fase quel che gli interessa è riuscire a restituire attraverso il mezzo grafico la struggente umanità di quel volto: la piega amara della bocca, quegli    «occhi di biffa macinati e pesti », come lo stesso Michelangelo ebbe a dire di sé in un passaggio memorabile delle Rime che risale più o meno a questi stessi anni (267)". Il disegno venne poi impiegato come modello per il volto dell’apostolo a destra della Assunzione della Vergine che Daniele da Volterra eseguì per la cappella della Rovere nella chiesa di Trinità dei Monti, a Roma.  (si veda la scheda curata da I. Di Majo in Daniele da Volterra, amico di Michelangelo, catalogo della mostra a cura di V. Romani, Firenze, Casa Buonarroti, 30 settembre 2003 – 12 gennaio 2004, pp. 110-112)
Il confronto con la scultura in bronzo oggi all'Ashmolean Museum di Oxford, opera sempre del Ricciarelli, non lascia dubbi sull'identità del volto del disegno.Benché la testa bronzea di Oxoford venne commissionata dal nipote di Michelangelo, Leonardo Buonarroti, nell’anno stesso della scomparsa del grande artista (il 1564) e non per su iniziativa personale del Ricciarelli, è chiaro che solo quest’ultimo poteva fissare per sempre i tratti dell’amico e maestro  con immediatezza d’espressione e trasporto affettivo.

Il Busto di Orazio Piatesi, conservato nella chiesa fiorentina dei Santi Michele e Gaetano fu realizzato su iniziativa dello stesso Daniele da Volterra. Delle vicende personali che stanno all’origine dell’opera dà conto il ben informato Giorgio Vasari “Avendo Daniello menato [leggi: condotto] in sua compagnia, quando a principio venne da Roma a Fiorenza, un suo giovane chiamato Orazio Pianetti [sic!], virtuoso e molto gentile, qualunche di ciò si fusse la cagione, non fù sì tosto arrivato a Fiorenza, che si morì. Di che sentendo infinita noia e dispiacere Daniello, come quegli che molto per le sue virtù amava il giovane, e non potendo altrimenti verso di lui il suo buono animo mostrare, tornato quest’ultima volta a Fiorenza, fece la testa di lui di marmo dal petto in su, ritraendola ottimamente da una formata in sul morto; e quella finita, la pose con un epitaffio nella chiesa di San Michele. Nel che si mostrò Daniello, con questo veramente amorevole uffizio, uomo di rara bontà et altrimenti amico agl’amici di quello che oggi si costuma comunemente, pochissimi ritrovandosi che nell’amicizia altra cosa amino che l’utile e commodo proprio” (Vasari, ed. 1568, p. 546-547). (si veda la scheda curata da A. Cecchi in Daniele da Volterra..., cit, pp. 156-157)
Bartolomeo Passerotti, Doppio ritratto, olio su tela, cm 73 x 59, Roma, Pinacoteca Capitolina, inv. 70 Eseguito dall’artista bolognese nella seconda metà del Cinquecento, il dipinto proviene dalla raccolta Sacchetti e ritrae due personaggi – il giovane suonatore di cornetto che si volge allo spettatore e l’uomo più anziano, assorto nei suoi pensieri- posto uno di fronte all’altro. Il contrasto delle loro età e degli atteggiamenti conferisce alla composizione un effetto dinamico e narrativo. L’immagine rientra nella tipologia ritrattistica, di origine umanistica, classificata come “quadro di amicizia” (Freunschaftsbild): un doppio ritratto in cui sono raffigurati due amici con gli attributi dei oro comuni interessi. Cézanne ne trasse un disegno, ora a Basilea.
Nel XVII secolo il ritratto d’amicizia può ben essere esemplificato da un’opera di Peter Paul Rubens conservato a Firenze, a Palazzo Pitti. Justus Lipsius e i suoi amici è il titolo che assume il dipinto dopo la scomparsa del fratello dell’artista il 28 agosto 1611. Entrambi erano allievi dello stusioso e filosofo neostoico Lipsius (1547-1606). Il pittore compare in piedi, dietro ai tre personaggi seduti. Seduti, da sinistra a destra , sono Philipp Rubens, Julius Lipsius e Jan Woverius. Ai piedi è un cane mentre nella nicchia sul muro si trova un busto di Seneca. Lo sfondo paesaggistico apre su di una veduta romana. Nella complessa regia della scena, che sembra alludere ad una lezione filosofica, compare anche un vaso con quattro tulipani, due aperti e due chiusi: «There is no doubt that these are meant to symbolize the four friends – the two full blown referring to the two dead friends, Lipsius and Philipp Rubens, and the two in bud to the living, Peter Paul Rubens and Woverius» (M. Morford, Stoics and Neostoics. Rubens and the Circle of Lipsius, Princeton, 1991, p. 11)
Per il Settecento possiamo attingere dalla ricca prroduzione ritrattistica inglese, in particolare volgendo lo sguardo su di un’opera di Sir Joshua Reynolds raffigurante Il colonnello Acland e Lord Sydney, dipinto che reca anche il significativo titolo di “Gli arceri”. Grande tela conservata oggi in collezione privata (236 x 180 cm), venne dipinta nel 1769. Tom Taylor, biografo vittoriano di Reynolds scrisse nel 1865 che Acland e Sydney erano ottimi amici, e che avevano compiuto insieme il Grand Tour fino a voler suggellare tale amicizia commissionando a Reynolds il dipinto in questione. Tuttavia I due avevano litigato ancor prima che il dipinto fosse terminato, rifiutandosi di pagarlo. In tal modo l’opera venne acquistata dal conte di Carnavon. Pare che I fatti raccontati dal biografo non siano del tutto corretti. Poco si sa del rapporto tra I due uomini, ma è stato appurato che non fecero insieme il Grand Tour (pare addirittura che Sydney non lo compì affatto, e che morì suicida nel 1774). E’ comunque un quadro intrigante, e tra I due giovani ritratti dovette sicuramente esservi un forte legame di amicizia.
Friedrich Overbeck, Ritratto di Franz Pforr, 1810 circa, olio su tela, 62 x 47 cm, Berlino, Staatliche Museen Preußischer Kulturbesits, Nationalgalerie. Il ritratto è descritto dallo stesso Overbeck in una lettera indirizzata da Roma a Joseph Sutter a Vienna, anch’egli facente parte della confraternita di San Luca: «[Pforr] indossa un abito in stile tradizionale tedesco ed è in piedi davanti a una finestra gotica aperta, incorniciata da una decorazione in pietra e circondata da una vite. Si vede l’interno di una camera, presso la cui parete di fronte siede una giovane donna (probabilmente la sua), che lavora a maglia e intanto legge un libro religioso…dietro si scorge una città gotica e più in là il mare. Il tutto deve presentarlo in una situazione in cui forse si sentirebbe assolutamente felice». Overbeck aveva dunque appena terminato l’abbozzo su tela e la composizione generale. Due anni più tardi però Pforr, malato di tubercolosi polmonare, morì ad Abano, nei pressi di Roma. Il dipinto, iniziato nel 1810, verrà terminato soltanto nel 1865.
Per contraccambiare il quadro Pforr aveva a sua volta sancito la stretta amicizia con Overbeck dipingendo Sulamith e Maria, un dittico oggi in collezione privata (1811, olio su tavola, 34,5 x 32 cm). Sulamith, la sposa predestinata, ha i capelli neri e l’abito colorato di bianco, rosso e verde. Maria invece, considerata nordica, veste un abito rosso chiaro e un grembiule bianco. Sulamith – il nome è derivato dalla quello della donna amata da Salomone nella Bibbia – è «destinata a Overbeck, che ama l’arte italiana dell’epoca di Raffaello, mentre Maria rappresenta l’amore di Pforr per l’arte primitiva tedesca. Dopo questa prima stesura letteraria, ed è fin troppo facile pensare all’ut pictura poesis», i due amici «intendono eseguire separatamente di due dipinti, e già una settimana più tardi Overbeck annota nel suo diario: “Belle ore passate con Pforr davanti al cartone con Sulamith e Maria”. L’11 ottobre, da Napoli, Pforr scrive a Overbeck: “[…] da quanto tempo non mi siedo con te davanti alle immagini delle nostre prescelte spose, Sulamith e Maria: i loro dolci nomi anche qui mi confortano, quando insopportabili situazioni mi trascinano nella grettezza della nostra epoca. A Castel a mare ho conosciuto una nobile donna che nei modi e nelle parole mi ricorda la mia Maria”. Allegato alla lettera è il Piano per il quadro Sulamith e Maria, in cui Pforr precisa come eseguirà il proprio dipinto, un dittico, alludendo principalmente agli studi che aveva elaborato, insieme con l’amico, sulla teoria del colore. […] Sulamith è seduta su una panchina all’interno di un hortus conclusus e ha dietro di sé il paesaggio italiano rinascimentale tanto caro a Overbeck. Maria è seduta in una piccola stanza nordica, simile allo studio di un San Girolamo; dalla finestra entrano i raggi di sole ad illuminare il letto, “che deve essere secondo la maniera antica, molto pesante di legno scuro e con un gradino per salirvi”.
Alla morte di Pforr, nel giugno 1812, Overbeck aveva lasciato incompiuto il dipinto Sulamith e Maria(interpretato in seguito come un abbraccio tra due donne, Italia e Germania, oggi a Monaco, Neue Pinakothek), suggello del rapporto di amicizia tra i due pittori. Soltanto nel 1828, per l’insistenza del mercante d’arte Wenner, di Francoforte, Overbeck portò a termine l’opera […]. Alle spalle dell’Italia si apre un paesaggio scarno: un eremo, le montagne, il fiume; alle spalle della Germania una città gotica tedesca. La figura della Germania si protende verso quella dell’Italia».Lo stretto rapporto che legava la comunità di artisti tedeschi a Roma (riunita nel convento di Sant’Isidoro abbandonato dopo le soppressioni napoleoniche) nella Confraternita di San Luca è espresso attraverso questi dipinti. Segni di appartenenza ad un comune ideale estetico che è anche ideale di vita, sognando il recupero di un medioevo ideale, in cui gli artisti erano liberati dai vincoli delle accademie e il linguaggio tornava ad essere semplificato, chiaro, spiritualizzato.
Il ritratto d’amicizia si afferma come genere proprio all’interno di quella cerchia di artisti. Ne è ulteriore prova il Ritratto di Wilhelm von Schadow con il fratello Rudolph e Bertel Thorvaldsen, dipinto nel 1815-16 a Roma, dove Schadow era arrivato nel 1811. Oltre a fargli conoscere la realtà artistica romana, il soggiorno italiano condusse alla conversione al cattolicesimo l’artista. Nel ritratto le mani sono l’elemento unificante, ponendosi in mutuo rapporto: Thorvaldsen è al centro, e tiene nella mano destra la stecca, che è strumento della sua professione; dietro è la Donna che si allaccia i sandali di Rudolph von Shadow (1786 – 1822), un’opera che diede fama al giovane artista, morto prematuramente. La stretta di mano tra i due fratelli, uno scultore e l’altro pittore, viene posta sotto l’ideale tutela del venerato maestro Thorvaldsen.
Hans von Marées (1837-1887), artista tedesco romanizzato, dipinse un autoritratto in compagnia di Franz von Lenbach, anch'egli pittore. Van Marées, collocato in primo piano con cappello, barba e occhiali, occulta in parte le fattezze dell'amico, che guarda l'osservatore con un sorriso ambiguo. Marées dipinse svariati autoritratti, che indicano una costante ricerca di sè, motivata anche dalla misantropia e dai difficili rapporti con gli altri. Dall'abbandono dell'Accademia di Berlino alla rottura con Carl Steffek, che cacciò il giovane artista dal suo studio. Insieme ad Hildebrand, col quale intratteva un rapporto intimo, affrescò la Stazione zoologica di Napoli, ma la loro relazione si infranse ben presto. Evitava di eseguire ritratti su commissione, preferendo ritrarre le persone che gli erano care. Nel dipinto qui proposto, conservato A Monaco di Baviera (Bayerische Staatsgemaldesammlungen, Neue Pinakotek, 1863, olio su tela, 54,3 x 62 cm), la stesura pittorica appare densa e stratificata, mettendo in luce un esercizio difficile e tutt'altro che spontaneo, alla faticosa ricerca di una formula che lo soddisfacesse.
Silvestro Lega (Modigliana, Forlì, 1826 – Firenze, 1895), Ritratto di Isolina Cecchini, 1869, olio su tela, 24,2 x 18,4 cm, Collezione privata. La ragazza ritratta è Isolina Cecchini, allieva di pittura e di pianoforte rispettivamente dello stesso Silvestro Lega e di Virginia Batelli, l’amata dal pittore. Il piccolo dipinto si caratterizza per una inquadratura fortemente ravvicinata, in modo da rivelare ancora di più l’intesa spirituale e la cordialità di sentimenti che legavano Isolina a Silvestro Lega. Il «senso di familiarità, di tenerezza affettuosa, fondate sulla consuetudine quotidiana, che si doveva respirare nelle stanze del villino Batelli, si riflette nel bel volto della ragazza appena ventenne, che con serena fiducia posa lo sguardo sul pittore che la sta ritraendo».
Paul Gauguin, Autoritratto con ritratto di Émile Bernard (Les Miserables), 1888, olio su tela, 45 x 55 cm, Amsterdam, Van Gogh Museum.
Émile Bernard, Autoritratto con ritratto di Gauguin, 1888, olio su tela, 46 x 55 cm, Amsterdam, Van Gogh Museum.
Charles Laval, Autoritratto, 1888, olio su tela, 50 x 60 cm, Amsterdam, Van Gogh Museum. Il 1888 è un anno che segna una singolare serie di ritratti finalizzati a suggellare intense ancorché brevi amicizie. Per la verità si tratta di autoritratti, inviati da Pont-Aven, in Bretagna, ad Arles. A desiderarli era stato Vincent van Gogh, che nel 1887 aveva lasciato Parigi intenzionato a fondare una comunità di artisti nel Sud della Francia, che avrebbero vissuto e lavorato assieme sotto il caldo sole mediterraneo. In lettera dell’ottobre 1888 all’artista olandese, Gauguin annuncia che sia lui che Émile Bernard avevano esaudito il desiderio dell’amico e le tele erano terminate. In seguito arriverà ad Arles anche un terzo autoritratto, eseguito da Charles Laval, e che Van Gogh giudica «bello ed ardito». La casa gialla, il buen retiro dell’artista, doveva dunque essere ornato dai volti degli amici pittori. Quando Van Gogh vide l’autoritratto di Gauguin restò piuttosto sconcertato, nonostante fosse stato accompagnato da una lettera che aveva il valore di una nota esplicativa: «Porto la maschera del bandito mal vestito e forte come Jean Valjean che ha una sua nobiltà e dolcezza d’animo. Il sangue ardente inonda il viso e i colori del fuoco di fornace che cntornano gli occhi rivelano la lava che ribolle nel nostro animo di pittore. Il disegno degli occhi e del naso simile ai fiori di un tappeto persiano riassume l’idea di un’arte simbolica e astratta. Lo sfondo fanciullesco e femminile con i fiori infantili è lì per attestare la nostra verginità artistica. E questo Jean Valjeab che la società opprime e mette fuori leggem col suo amore e la sua forza, non è forse anche l’immagine del moderno impressionista? E poiché gli ho dato i miei lineamenti, lei ha sia la mia effige personale sia il ritratto di tutti noi, povere vittime della società che ci vendichiamo facendo del bene».
Lo stesso Van Gogh eseguirà svariati ritratti di amici. Gente comune, oppure artisti, come Eugène Bloch (Parigi, Musée d’Orsay), conosciuto a metà giugno 1888 e dal quale restò profondamente affascinato . Scrive Van Gogh al fratello Theo: «Ieri ho ancora passato la giornata con quel belga […]. Ebbene, grazie a lui ho finalmente un primo schizzo di quel quadro che sogno da tanto tempo, - il poeta. Ha posato lui. La sua testa fine dallo sguardo verde si stacca nel ritratto che ho fatto, su un cielo stellato oltremare profondo. È vestito di una piccola casacca gialla, un colletto di tela grezza, una cravatta variegata […] Ah, fratello caro, talvolta so così bene ciò che voglio. Nella vita e nella pittura posso bene fare a meno del buon vino, ma non posso, io che soffro, fare a meno di qualcosa di più grande di me, che è la mia vita, la potenza creativa. […] E quando si è frustrati nella potenza fisica, si cerca di dar vita ai pensieri al posto dei figli, e si partecipa così dellìumanità. E con un quadro come questo vorrei poter esprimere qualcosa di commovente come una musica. Vorrei poter dipingere uomini e donne con un non so che di eterno, di cui una volta ne era simbolo l’aureola, e che noi cerchiamo di rendere con lo stesso raggiare, con la vibrazione dei colori.» Continua affermando di voler «fare il ritratto di un amico artista, che sogna i grandi sogni, che lavora come l’usignolo canta, perché è questa la sua natura. Quest’uomo dovrebbe essere biondo. E vorrei mettere nel quadro la stima e l’amore che ho per lui. Lo ritrarrei dunque così come è, più fedelmente possibile, per cominciare. Ma il quadro non sarebbe terminato così. Per finirlo farò il colorista arbitrario. Esagererò il biondo dei capelli, arrivando ai toni di arancione, ai gialli cromo, al limone pallido. Dietro la testa, invece di dipingere il muro banale del misero appartamento, dipingerò l’infinito, farò uno sfondo semplice del blu più ricco, più intenso che riuscirò ad ottenere; da questa semplice combinazione, la testa bionda, illuminata su questo sfondo blu sontuoso, rende un effetto misterioso come di stella nell’azzurro profondo.» Bibliografia e Sitografia: Vincenzo Foppa, a cura di G. Agresti, M. Natale, G. Romano, catalogo della mostra Brescia, Santa Giulia – Museo della Città, marzo – giugno 2002, Milano, Skira, 2002, p. 103. M.T. Cicerone, La vecchiaia. L’amicizia (a cura di N. Marini), Milano, Garzanti, 1998, p. 111 (XX, 74). Per il Ritratto del Tebaldeo: http://fe.fondazionezeri.unibo.it/foto/80000/73600/73445.jpg Per il Doppio ritratto della Doria Pamphilj: http://it.wikipedia.org/wiki/File:Double_Raphael.jpg Per il ritratto di Isolina Cecchini: http://www.alinariarchives.it/internal/?photocode=ACA-F-064497-0000&languageID=it&ref=cultura e la scheda di S. Bietoletti nel catalogo della mostra Silvestro Lega, i Macchiaioli e il Quattrocento, a cura di G. Matteucci, Fernando Mazzocca, A. Paolucci, Forlì, Musei di San Domenico, gennaio – giugno 2007,Cinisello Balsamo/MI, Silvana Editoriale, 2007, pp. 282-283. C. Foppa Pedretti, Essere amici. Percorsi di educazione, Milano, Vita & Pensiero, 2002, p. 78-79 R. Brandt, Filosofia nella pittura. Da Giorgione a Magritte, Paravia Bruno Mondadori, 2003, p. 228 sgg. (per Rubens) F. Mazzocca, Francesco Hayez, Andrea Maffei e il fascino esercitato da Milano nella scena artistica trentina dell’Ottocento, in Il Secolo dell’Impero. Principi, artisti e borghesi tra 1815 e 1915, catalogo della mostra a cura di G. Belli e A. Taddia, Rovereto, Mart, giugno – ottobre 2004, Milano, Skira, 2004, pp. 27-41, in part. pp. 38-39. Joshua Reynolds e l’invenzione della celebrità, scheda curata da M. Postle e M. Hallet, catalogo della mostra Ferrara, Palazzo dei Diamanti, 2005, pp. 206 – 207.

lunedì 7 gennaio 2013

L'immagine del bosco nelle avanguardie del Novecento (IV)

L’immagine del bosco accompagna le avanguardie che nei primi decenni del secolo scorso hanno attraversato la storia dell’arte. Il superamento della fase di semplice rappresentazione era già avvenuto, come abbiamo visto, con Cézanne, e la sua lezione sarà raccolta dai cubisti, che ne elaboreranno compiutamente le intuizioni. Se nella Parigi di inizio Novecento Pablo Picasso non sembra interessarsi al paesaggio, è il collega e amico George Braque a interpretarlo nella tipica scomposizione di piani, dove tutti gli elementi della visione si compenetrano quasi a suggerire una pluralità di punti di vista. La scoperta del relativismo sembra dunque non essere di pertinenza esclusiva della fisica e di Albert Einstein, ma diviene indipendente intuizione degli stessi pittori, avvalorando quel misterioso meccanismo di vasi comunicanti che la cultura in certe epoche rivela. La lezione di Braque, tradotta tuttavia con ritmi più fluidi e morbidi, sembra interessare anche lo spanolo Joaquim Sunyer (Sitges, 1875-1956) che in Paesaggio a Fornalutx (Barcellona, Museu Nacional d’Art de Catalunya) conferisce al bosco in primo piano una linea ondulata, morbida e nervosa a un tempo.
Dalla sfaccettata e cromaticamente austera visione cubista (almeno in quella dei primi anni dal 1907 al 1913 circa), il nostro sguardo passa alla Germania, e alle proposte che i pittori dell’Espressionismo formulano sulle loro tele. Nel piccolo dipinto di Schmidt Rottluff della Collezione Thyssen di Madrid, dipinto nel 1913, un sole abbagliante colora di giallo l’intero paesaggio, dove le uniche presenze verdi e rosse sono costituite dai profili aguzzi della pineta. La semplificazione si avvale di un segno duro e a tratti aspro, tagliente, in linea con il recupero delle xilografie tedesche del XV secolo avviato dai pittori espressionisti che in esse individuavano uno degli aspetti specifici dell’arte del loro Paese.
Col Novecento il fortunatissimo tema del nudo, specie femminile, all’interno di un ambiente naturale, viene riproposto anche da alcuni artisti di formazione e stile diversi. Ne abbiamo selezionati tre, appartenenti a correnti pittoriche diverse. Di questi il più antico è quello dipinto nel 1908 dall’artista che sarà ricordato soprattutto come caposcuola del Suprematismo russo, Kasimir Malevič (Kiev, 1878 – San Pietroburgo, 1935). Conservata al Museo russo di San Pietroburgo. Il quadro ritrae un Bosco con fiume e bagnanti (olio su tela, 53 x 42 cm), dove la qualità del colore si fa decisamente più lirica e spirituale rispetto ai Fauves francesi o agli Espressionisti tedeschi, quasi da fiaba, in linea per certi versi alla pittura di quegli anni di Vasilij Kandinskij, insieme a Malevic iscritto all’Associazione degli Artisti di Mosca.
Vicino al cubismo, di cui elabora una specifica, caratterizzante versione cilindrica (al punto da essere stata chiamata anche “tubismo”) è Fernand Léger (1881-1955), qui proposto con Tre nudi in un bosco, del 1909-10 (olio su tela, 120 x 170 cm, Otterlo, Kröller-Müller Museum). Esposto al Salon des Indépendants del 1911, Guillaume Apollinaire riferendosi al dipinto disse in quell’occasione che «M. Fernand Léger a encore l’accent le plus inhumain de cette salle. Son art est difficile», mentre l’artista anni dopo confessò che per lui quell’opera «n’étaient qu’un bataille de volumes», rivelando un interesse puramente strumentale della figura umana e dunque del bosco, piegati a finalità espressive del tutto sperimentali.14
Di Paul Delvaux (1897-1994), esponente di spicco del Surrealismo, non si può non ricordare Il risveglio della foresta (1936, Chicago, Art Institute, olio su tela, 170,2 x 225,4 cm), dove a dispetto del titolo, di memoria ancora simbolista e caro allo stile Art nouveau, troviamo figure nude che si sforzano, senza riuscirvi, di ricreare un’atmosfera idillica. Il loro muoversi incerto e lo sguardo spaesato, tradiscono la consapevolezza di essere osservati come fossero dentro a un ambiente artificiale, costruito apposta per loro. La scoperta della sessualità freudiana ha definitivamente spezzato l’incanto, così anche l’immagine del bosco ha smarrito l’incontaminata freschezza che da sempre lo accompagnava.
L’immagine della foresta con il progressivo avanzare verso il cuore del Novecento, sembra non avere che due strade: o dissolversi nell’opera dell’Espressionismo astratto americano, o irrigidirsi divenendo bosco fossile e pietrificato, come nelle tele di Max Ernst. Nel primo caso si veda la tela del Guggenheim Museum di Venezia (221,3 x 114,6 cm, olio su tela, Peggy Guggenheim Collection, 1947) di Jackson Pollock (1912-1956), dove solo il titolo Enchanted forest aiuta ad evocare, nella nostra mente, l’immagine aggrovigliata dei rami tradotta nell’azione del dripping. Così scrive Elizabeth C. Childs nel sito del Guggenheim Museum: «Pollock creates a delicate balance of form and color through orchestrating syncopated rhythms of lines that surge, swell, retreat, and pause only briefly before plunging anew into continuous, lyrical motion. One’s eye follows eagerly, pursuing first one dripping rope of color and then another, without being arrested by any dominant focus. Rather than describing a form, Pollock’s line thus becomes continuous form itself.» Ma dove i rami? Dove le ombre? Pura memoria, sostenuta dal titolo del dipinto.
Max Ernst torna più volte a raffigurare paesaggi dove i luoghi della sua infanzia, le foreste nei dintorni di Bruhl, presso Colonia, sembrano come pietrificarsi, mantenendo tuttavia una loro vita interna, misteriosa, brulicante proprio attraverso la particolare texture che, grazie a una nuova tecnica, il frottage, dà vita a minerali e a forme zoo ed antropomorfe. Foreste vergini rivissute alla luce di inedite associazioni: o a tempi preistorici, quando ancora la civiltà non era apparsa, oppure a epoche future, dove la vita umana si immagina caduta vittima di altre forze e il pericolo della sua estinzione – avvertito specie dopo aver sperimentato la bomba atomica – si faceva un pericolo concreto e quotidiano. Nemmeno quando lasciò l’Europa allo scoppio della Grande guerra, Ernst abbandonò quel tema, anche se la foresta che gli dà nuova ispirazione ora non è più quella dell’infanzia, ma quella dei nativi americani Hopi. Dalla Foresta del Guggenheim Museum (1927-28, 96,3 x 129,5 cm) di Venezia a Totem e tabù della Neue Pinakothek di Monaco (1941-42, 72 x 92 cm, in prestito a lungo termine dalla Theo-Wormland-Stiftung) fino al titolo sinistro, ma particolarmente calzante per chiudere questa carrellata, del dipinto L’ultimo bosco (La dernière forêt del 1969, conservato a Brühl, Max Ernst Museum), Ernst accompagna per tutta la vita la sua personalissima visione del bosco in modo coerente fino al limite dell’ossessivo.
Ma in quello stesso 1969, anno dello sbarco dell’uomo sulla luna, Ernst dipinge anche la Naissance d’une galaxie (Basilea, Fondazione Beyeler), segno che il mistero del bosco aveva come esaurito il potere seduttivo e lo sguardo del pittore ne cercava altri, ben più lontani e indecifrabili.

L'immagine del bosco nell'Ottocento III

IL BOSCO IN POSA Nel trattare della rappresentazione del bosco lungo tutto il XIX secolo è necessario ricordare il grande contributo degli artisti francesi, espresso grazie anche ad un apparato teorico fortemente stimolato e divulgato già in seno all’accademia. È il trattato di Henry de Valenciennes (Elements de perspective, cui appartiene il capitolo Réflexions et Conseils à un élève sur la Peinture et particulièrment sur le genre du Paysage) a fornire i consigli utili ai giovani artisti che intendevano dedicarsi alla pittura di paesaggio nelle sue varie manifestazioni, anche atmosferiche. Analogo è l’approccio degli inglesi, condotto tuttavia senza il medesimo approccio teorico e pedagogico dei colleghi francesi. Alcuni di loro, ancorché avviati alla pittura negli atelier di pittura più autorevoli, si dedicarono alla fotografia, scegliendo come soggetti per lo più cattedrali e luoghi boscosi. Ci riferiamo a Gustave Le Gray (Villers-le-Bel, 1820 – Il Cairo, 1884), Henri Le Secq (Parigi, 1818 – Parigi, 1882), Eugène Cuvelier (Arras, 1837 – Thomery, 1900), solo per citare i più celebri, cui si aggiunge l’inglese Frederick H. Evans (Londra, 1953- 1943). Di Le Gray prendiamo ad esempio la Foresta di Fontainebleau (25,9 x 36,8 cm, 1852-53, Parigi, Musée d’Orsay), dove il punto di vista fortemente ribassato, quasi ad altezza del terreno, permette di sviluppare in tutta la loro altezza i grandi alberi dal sottobosco fino al cielo, reso bianco dalla stessa luce che filtrando attraverso i rami, crea sul sentiero effetti che piaceranno particolarmente agli impressionisti.
Altrettanto significativo è il caso di Le Secq, che nell’atelier del pittore di storia Paul Delaroche diviene amico ed allievo di Le Gray, col quale prende parte alla Mission héliographique, vera e propria campagna fotografica volta a ritrarre gli edifici più importanti della Francia dell’Est, specie le cattedrali di Reims, Strasbourg e Laon.
Ereditata dalla moglie una proprietà nei pressi della foresta di Montmirail, Le Secq inizia la realizzazione di numerose fotografie del sottobosco, degli alberi cedui, delle rocce. Di lui Henri de Lacretelle scrisse sulla rivista della Société héliographique (La Lumière): «Nous avons feuilleté longtemps l’inépuisabile album de M. Lesecq (sic). Le jeune artiste, noblement dévoué à la double mission qu’il s’est donnée, ne quitte les tableaux de son chevalet que pour ceux de sa chambre obscure.» A rappresentarlo abbiamo scelto una fotografia del Musée des Arts décoratifs di Parigi dal titolo Ruscello nel bosco (50,7 x 37,7 cm, del 1852 circa). Merita uno sguardo anche la produzione dell’inglese Evans il quale, oltre al paesaggio risulta attratto anche dagli interni delle cattedrali e dai ritratti. In questa foto del Metropolitan Museum, il bosco rivela continui ed inattesi giochi di luce e ombra, confermando quanto forte continuasse ad essere l’attrazione esercitata da quel soggetto sugli artisti già ad apertura di secolo (la foto in questione è infatti del 1909, qui riportata).
Tornando alla pittura, una figura fondamentale tra Settecento e Ottocento è Jean-Victor Bertin (Parigi, 1767 – 1842), che rivela un interesse per il paesaggio classico, recuperato attraverso lo studio assiduo dei grandi pittori seicenteschi quali Claude Lorrain e Nicola Poussin. Ma confrontando due opere, entrambe del Metropolitan Museum, eseguite a oltre trent’anni di distanza l’una dall’altra, ne ricaviamo l’impressione che il suo stile controllato, mentale, rigoroso, col tempo si stemperasse forse per l’influenza dei più giovani colleghi, divenendo più diretto e spontaneo. Va tuttavia considerato che i due quadri sono sicuramente stati concepiti con diverse finalità, anche in considerazione del diverso supporto su cui sono stati dipinti (l’uno, del 1803, su pannello di legno, l’altro del 1835, ad olio su carta, rispettivamente di 36,8 x 45,7 cm e 38,7 x 52,4 cm), ma ciò non toglie che rappresentino bene il dibattito intorno alla rappresentazione del bosco e della natura che la Francia di primo Ottocento viveva.
In un’opera come la Caccia nell’Agro Pontino di Horace Vernet (1789-1863), dipinta nel 1833 (oggi a Washington, National Gallery, 100,3 x 137,2 cm), si ha la sensazione vivida che ad aver colpito l’artista siano stati i grandi alberi, come quello ormai secco che, spezzato alla base, si è rovesciato su quelli ad esso vicini che ne hanno fermato la caduta, realizzando così una sorta di abbraccio. Una foresta resa quasi impenetrabile dalla folta vegetazione cui i grandi alberi secolari sembrano fare da guardiani.
I boschi della campagna romana dei dintorni di Terni, con il loro forte potere evocativo sedimentato dalla storia, alimentano, tra gli altri, l’ispirazione di Corot. Comunicare un’emozione era uno degli obiettivi del paesaggio romantico al quale Corot era maggiormente fedele, e se accorse uno dei suoi critici più attenti quando scrisse: «Non è un paesaggista, è il poeta stesso del paesaggio, che sente, che soffre, che trova, che respira le tristezze e le gioie della natura; conosce il dolore delle foreste desolate, l’ineffabile malinconia delle sere, la gioia radiosa delle primavere e delle aurore; indovina quale pensiero inclina i rami e fa piegare il fogliame; sa quello che direbbero se potessero parlare, i sentieri perduti nei boschi. Il legame, il grande legame che fa di noi i fratelli dei ruscelli e degli alberi, lui lo vede; le sue figure, poetiche quanto le sue foreste, non sono estranee alla natura che le circonda».6 Di seguito si riproducono Querce a Pas-Bréau nei pressi di Fontainebleau, New York, Metropolitan, 1832-33, 39,7 x 49,5 cm) e la Foresta di Fontainebleau (Washington D.C., National Gallery, 1854-35, 175 x 232 cm).
Insieme a quelle italiane, le foreste francesi (dell’Auvergne e di Fonainebleau soprattutto), come si è visto, diventano il luogo privilegiato ove lavorare a contatto diretto con la natura, nell’eccitante sfida a cogliere con immediatezza il mutare della luce. Disinvolto nell’esecuzione e principalmente attento proprio alla resa dei raggi del sole filtrati dal fogliame è Théodore Rousseau (1812-1867), che nel raffigurare i grandi alberi ne il Vecchio parco di Saint-Cloud (Ottawa, National Gallery of Canada, olio su tela 66,6 x 82,5 cm) dimostra di avere lavorato direttamente ed interamente en plein air, come suggeriscono le tracce di grafite trovate sotto la sottile pellicola pittorica (lo si può vedere sul sito del Museo canadese: http://www.gallery.ca/en/see/collections/artwork.php?mkey=14898 . Si veda anche il sito del Musée d’Orsay, cui appartiene Interno del bosco di Fontainebleau, dipinto da Rousseau tra il 1836 e il 1837, molto vicino per soggetto alla tela del Museum di Dallas del’artista francese (ma di origini spagnole) Narcisse Diaz de la Peña
Le foreste di Fontainebleau, a Sud Est di Parigi, continuano per quasi tutto l’Ottocento ad essere scelte come atelier a cielo aperto da una nutrita schiera di pittori attratti da un nuovo modo di percepire la natura e il paesaggio. Insieme ai già citati Corot e Rousseau, sono i meno noti – ma a loro contemporanei - Achille-Etna Michallon (1796-1822) e Augustin Enfantin (1793- 1827), prematuramente scomparsi, ad aver lasciato suggestive rappresentazioni non solo dei luoghi, ma anche dell’entusiasmo di trovarsi immersi in essi. In un piccolo dipinto, eseguito significativamente ad olio su carta (per una più pratica e facile trasportabilità), Enfantin dipinge un artista, forse lui stesso o un collega, intento a ritrarre alberi e rocce proprio nel cuore della foresta, col cavalletto poggiante su di alcune rocce.7
Di Michallon merita di essere segnalato The fallen oak branch (Minneapolis Insitute of Art, 41,9 x 52,1 cm) dove il pittore è attratto, entro la vegetazione della rigogliosa foresta, dall’enorme tronco spezzato di una vecchia quercia. Le tipiche foglie dorate dell’albero e il suo legno nodoso, oramai privi di vita, sembrano invitare a un pensiero sul significato dell’esistenza, persino di quella umana.
Consultando l’Inventaire du Département des Arts Graphiques del Louvre, visibile anche online, si possono ammirare freschissimi disegni di particolari della foresta di Fontainebleau eseguiti da Théodore Caruelle d’Aligny (1798-1871), come quello qui riportato (Alberi e rocce).
Altri significativi artisti del periodo, facenti parte della Ècole de Barbizon, sono Francois Millet (1814-1885), Henri Harpignes (1819-1916), Jules Dupré (1811-1889), Henri Joseph Constant Dutilleux (1807-1865). Quest’ultimo, formatosi in ambito accademico, ebbe una vera e propria rivelazione quando conobbe l’opera di Corot, al punto da convincerlo a dedicarsi esclusivamente al paesaggio. In Pini e betulle della foresta di Fontainebleau, del Louvre (olio su tavola, 40,5 x 54 cm), ci si trova di fronte ad un tipico dipinto di Dutilleux, iniziato en plein-air e terminato in atelier, caratterizzato da composizione accurata, sicuro dominio dell’impaginazione e morbidi effetti di luce.
L’attrazione esercitata dal bosco coinvolse anche un grande pittore di figura qual è Eugène Delacroix (1798-1863) che lo fece diventare coprotagonista nella Lotta di Giacobbe con l’angelo della chiesa di Saint-Sulpice, eseguito ad olio e cera su muro tra il 1854 e il 1561 (qui sotto riportata a sinistra). La vasta superficie della parete è dominata dalla monumentalità delle querce, in cui la lezione dei veneti del Cinquecento (specie di Tiziano, di cui Delacroix possedeva una copia del l’Uccisione di San Pietro Martire eseguita da Géricault; la pala originale, perduta in un incendio, si trovata nella Chiesa dei Santi Giovanni e Paolo di Venezia, qui riprodotta attraverso la foto di una copia antica, in basso a destra) si sovrappone all’esperienza diretta sull’esempio dei barbizonniers.8
Gustave Courbet (1819-1877), caposcuola del Realismo francese, sviluppa un approccio tecnico nuovo al paesaggio. La materia pittorica, densa e rugosa, viene applicata alla tela per mezzo non solo del pennello ma anche della spatola, e con tali mezzi ritrae i boschi intorno a Ornans, percorsi dal torrente Brema, le cui acque si fanno scure per via della folta vegetazione che solo a tratti lascia filtrare il sole. Si possono vedere e udire i luoghi che hanno ispirato Courbet da modello su http://www.youtube.com/watch?v=Y9KjhJWMIbk e confrontarlo con le tele conservate a Washington D.C., National Gallery (Le ruisseau du Puits-Noir vallée de la Loue, 104 x 138 cm, 1855), a Parigi, Musée d’Orsay (Le ruisseau couvert detto anche Le ruisseau noir, 94 x 135 cm, 1865) e a Baltimora, The Baltimore Museum of Art (Le Puits-Noir, 65 x 81 cm). Queste tele sono di seguito riportate nell’ordine in cui sono state citate.
Della tela di Washington si legge:
«les troncs centraux sont ainsi le pivot d’une composition basée sur un double mouvement, vers l’extérieur avec le ruisseau qui sembòe se déverser hors du cadre. Vers les profondeurs où le regard s’enfonce, guidé sur la droite par la scansion des troncs et des anfractuosités des rochers que le temps et la pluie ont rouillée par de grandes veines du haut en bas».9 La rappresentazione del nudo femminile nel dipinto La source (Parigi, Musée d’Orsay) fa del bosco in cui la donna è immersa un luogo incontaminato, originario, mitico. Il rinvio alla tradizione rinascimentale italiana, specie di Giorgione e di Tiziano, è filtrato da una nuova epidermide delle cose e del nudo, realistico e di forte impatto.
Per l’Italia, un posto di rilievo spetta alle tempere di Giuseppe Pietro Bagetti, di cui si ricordano i trenta esemplari conservati al Palazzo Reale di Torino datati agli anni Trenta dell’Ottocento. Una magica sequenza di valli e di boschi “di intensissima immagine mitica, che rappresenta l’altro volto del Bagetti ingegnere-topografo lontano, a queste date, dal tecnicismo funzionale alla cartografia” (Ottani Cavina). L’assenza di cielo nel foglio raffigurante Boschi e forre sulla montagna (62 x 100 cm), lascerebbe quasi supporre che l’artista si sia avvalso di una mongolfiera per ricavare questa immagine suggestiva e inconsueta. Nella sua formazione si mescolano lo studio delle esperienze pittoriche francesi, olandesi e britanniche (Constable in testa), funzionali ad una celebrazione della natura dilagante e non più antropocentrica. Il modello di Théodore Rousseau e dei maestri olandesi lo aiuta a dimostrare che l’attenzione scientifica poteva essere coniugabile al mistero della natura.
Una foresta esotica, selvaggia, impenetrabile, è quella accuratamente disegnata da Charles de Clarac (Musée du Louvre, Paris); archeologo dilettante e disegnatore di grande talento, nel 1816 accompagna in Brasile la missione del duca di Luxemburg. Ambasciatore straordinario di Luigi XVIII, Clarac disegna gli elementi tipici di una foresta primitiva che completerà,al suo rientro in Europa, con uno studio delle piante tropicali. La sua foresta vergine del Brasile, esposta al Salon parigino del 1819, sembra rispondere alle aspettative naturaliste di Alexandre de Humboldt che, nel suo saggio sulla geografia delle piante (1805) richiede agli artisti di andare a dipingere sul posto la prodigiosa ricchezza della vegetazione del Nuovo Mondo.
Altrettanto lussureggiante è la foresta giamaicana dipinta da uno dei più importanti esponenti della Hudson River School americana, Frederic Edwin Church (Hartford, 1826-New York, 1900), come si vede nel quadro eseguito ad olio su carta tra il maggio e il giugno del 1865 (Olana, State Historic Site, New York State Office of Parks Recreation and Historic Preservation).10
Un singolare contributo alla rappresentazione del bosco la si deve anche a John Everett Millais (1829-1896), nativo di Southampton, che venne ammesso alle scuole della Royal Academy ad appena 11 anni per via del suo eccezionale e precoce talento. L’inclinazione letteraria, dovuta anche alla frequentazione della confraternita dei Preraffaelliti, lo conduce a trovare anche nel paesaggio boscoso richiami alla poesia, in special modo dell’inglese Tennyson. Al momento della sua prima esposizione, il dipinto Dew-Drenched Furze (letteralmente Ginestre intrise di rugiada) venne commentato come «an autumnal scene in a dense wood, with a fern-crowned vista between trees opening to and ending in a lofty mass of russet oaks, ruddy beeches, and grey larches. The vapour has condensed upon the furze, ferns, leaves and gossamers. In a foreground, embedded among the fern stems, is a hen pheasant, whose mate, with his splendid plumage hidden in the shadow, is close at hand».11
In armonia con il clima di revival shakespeariano della cultura inglese di metà Ottocento, veicolato anche dalla Confraternita dei Preraffaelliti (la Pre-Raphaelites Brotherhood), la pittura non poteva mancare di dare visibilità agli episodi di svariate commedie e tragedie. Tra le prime è Sogno di una notte di mezza estate (A Midsummer Night’s Dream), che aveva già stimolato la fervida immaginazione figurativa degli artisti tedeschi, primo fra tutti di Johann Füssli. Il bosco, anzi il sottobosco, offre la cornice scenica ideale ai momenti salienti che vedono protagonista la regina degli elfi Titania (l’atto III scena I, dove sono Titania e Bottom con la testa d’asino; l’atto II scena II, dove Titania è sprofondata nel sonno). Tra le tragedie di Shakespeare la figura di Ofelia (dall’Amleto, ossia The tragical History of Hamlet, Prince of Denmark) e la narrazione del suo suicidio implicano una descrizione del bosco in cui, attraverso un’attenzione quasi botanica per le varie specie che è tipica dei Preraffaelliti (lo stesso John Everett Millais già citato, o ad esempio John William Waterhouse, tele entrambe alla Tate Gallery di Londra, ma si può ricordare anche l’opera del tedesco Victor Von Müller conservata a Francoforte, Städelsches Kunstinstitut, del 1869), possiamo distinguere la vegetazione arborea solita a trovarsi lungo le rive dei torrenti. Da Sogno di una notte di mezza estate si riportano qui due tele, la prima dell’austriaco Alois Nigg (Vienna, attivo tra il 1800 e il 1850), della Pinacoteca Civica al Montirone di Abano Terme (data alla metà del XIX secolo, 83 x 104 cm, la prima immagine) e l’altra dell’inglese Richard Dadd (Parigi, Louvre, 64 x 77 cm, del 1886; la seconda immagine). Calato in una dimensione sospesa tra il misticismo religioso e il risveglio di un nuovo senso nazionale è il bosco nella pittura del Romanticismo tedesco. In particolar modo la quercia, pianta tedesca per eccellenza, e dunque il bosco-querceto, ritornano piuttosto frequentemente quali simboli di questo sentimento di appartenenza.
Ne è prova la tela di Friedrich Georg Kerting raffigurante Theodor Korner, Friesen e Hartmann di guardia in prima linea del 1815 (Berlino, Staaliche Museen Preußischer Kulturbesitz, Nationalgalerie). Il dipinto commemora gli amici del pittore che si batterono durante la guerra di liberazione contro Napoleone e vi persero la vita. L’ambientazione non poteva essere più adeguata: i tre sono di guardia ai margini di un querceto pervaso di luce. Sulla destra, in piedi, Karl Friedrich Friesen, maestro di ginnastica e stretto collaboratore del “Turnvater Jahn”, il padre della ginnastica moderna. A sinistra, appoggiato al tronco di una quercia, siede Theodor Korner, il poeta di cui nel 1824 fu pubblicata la raccolta di poesie dal titolo Leyer und Schwert. Davanti a lui è sdraiato Hartmann con la pipa in bocca. Tutti indossano l’uniforme nera del corpo dei volontari e portano la croce di ferro ideata da Schinkel. Nel quadro la memoria degli amici si unisce alla coscienza patriottica e al monito sulla situazione politica contemporanea.12
Pochi anni prima, nel 1810, lo stesso albero ritornò nel dipinto di Casar David Friedrich Abbazia nel querceto (Berlino, Alte Nationalgalerie, 110,4 x 171 cm), dove il bosco avvolto nella nebbia dialoga in modo sinistro con i ruderi dell’edificio gotico intorno al quale sono un cimitero e un corteo funebre.
Di tono idillico è la tela di Adrian Ludwig Richter raffigurante Genoveffa nel bosco (olio su tela, Amburgo, Kunsthalle, 1841, 116,5 x 100,5 cm), in cui l’isolamento nel bosco si fa rifugio ideale di animali uomini che hanno rifiutato le angustie della vita di città, accettando di vivere in una dimensione atemporale. La leggenda narra che Genoveffa di Brabante, vissuta nell’VIII secolo, era la sposa del conte palatino Siegfried. Accusata ingiustamente di adulterio, fuggì nel bosco insieme al suo bambino dove entrambi si nutrirono del latte di una cerva. Lo sposo, ritornato in patria, la trovò e ne riconobbe l’innocenza, mentre Golo, che l’aveva ingiustamente accusata, fu giustiziato. Suggestiva è l’immagine del bosco nel piccolo dipinto di Heinrich August (1794-1822) oggi a Dresda (1809-1810, 21 x 26 cm, Galerie Neue Maister), dove attenta è l’indagine delle molte specie che crescono e fioriscono all’ombra dei grandi alberi.
Vero e proprio specialista del genere, coltivato anche durante il suo viaggio in Italia, è Carl Blechen (Cottbus, 1798- Berlino, 1840), che ritrasse il parco della Villa d’Este a Tivoli e, in Germania, vedute boschive di parchi e foreste, come Sentiero nella foresta di Spandau, dell’Alte Nationalgalerie (olio su tela, 73 x 102 cm), dipinto nella sua maturità, dove a colpire è la notevole padronanza con cui l’artista riesce a ottenere l’effetto della densa ombra, con i due grandi alberi in controluce sulla sinistra, mentre il sentiero che attraversa la foresta sembra condurre il nostro sguardo verso l’orizzonte.
Condotto con la stessa rapidità di un essenziale appunto, e per questo più moderno, è l’approccio disinvolto alla natura dell’inglese Johan Barthold Jongkind, ammirato dagli impressionisti Camille Pissarro e Claude Monet, il quale scrisse del collega d’oltremanica: “la sua pittura era moderna; egli era stato il mio vero maestro e a lui devo l’educazione finale del mio occhio artistico”.
Tra i tanti esempi che è possibile fare, si propone di considerare il disegno conservato al Musée du Louvre, raffinato proprio per la sua sintetica immediatezza, raffigurante un sentiero che si avvia ad entrare in un bosco. Prima della Secessione viennese, la pittura in Austria può ben essere rappresentata da Ferdinand Georg Waldmüller (1793-1865), artista di qualità tecniche altissime e di straordinaria versatilità nel trattare i generi più disparati, dalla ritrattistica imperiale a scene popolari, ai fiori e alla nature morte con preziose argenterie dove il suo stile, affine per molti versi al chippendale, si spinge fino a risultati virtuosistici. Non mancò di trattare neppure il paesaggio, e per il nostro viaggio pittorico nel bosco possiamo soffermarci sul dipinto di Cleveland (The Cleveland Museum of Art, Ohio), di non grande formato (olio su tela, 25 x 31 cm) ma di elevata qualità, sia per la descrizione delle masse, sia per la scansione in profondità visibile attraverso i tronchi delle querce di questo parco ritratto nelle vicinanze di Vienna.
Di certo l’apporto più significativo della pittura austriaca al paesaggio moderno si ha con Gustav Klimt. In Faggeto I (Dresda, Moderne Galerie, 1902 circa, 100 x 100 cm) e in Bosco di betulle (Vienna, Sterreichische Galerie, 1903 circa, 110 x 110), ci troviamo completamente all’interno della vegetazione, di cui l’artista ritrae, in equilibrio sottile tra stilizzazione, ornamento, naturalismo, i tronchi degli alberi, che con le loro forme flessuose e la corteccia chiara, si fanno decorazione. Benché Klimt dipingesse paesaggi come passatempo, il suo contributo al genere è di assoluta originalità. Lui stesso scrisse, in una lettera del 1903 indirizzata a Marie Zimmermann, le sue giornate nei pressi del lago di Attersee: «Mi alzo di solito molto presto, intorno alle 6; se il tempo è bello, vado a fare una passeggiata nel bosco vicino; là mi metto a dipingere una piccola faggeta (col sole) con qualche conifera qua e là, e questo fino alle 8; alle 8 si fa colazione e poi si va a fare il bagno nel lago, prendendo tutte le dovute precauzioni; poi dipingo ancora un po’[…]».13
Per la Spagna, e in particolare per la Catalogna, Lluis Rigalt y Farriol (Barcellona, 1814-1894) costituisce uno dei più significativi pittori di paesaggio del Romanticismo. Vicino all’opera del francese Vernet è la tela raffigurante Paesaggio con bosco del Museu Nacional di Barcellona, del 1866, dalla vegetazione solenne con grandi alberi che digradano all’orizzonte da destra a sinistra.
I fitti boschi di pino silvestre, tipici della Sierra del Guadarrama, massiccio montuoso nel cuore della Spagna, sono stati dipinti da Martin Rico y Ortega (1833-1908), come dimostra la tela conservata a Madrid, Prado (olio su tela, 69 x 100 cm). Le varietà geologiche, vegetali e meterologiche del Guadarrama consentirono all’artista di sviluppare il suo talento paesaggistico, influenzato in parte dal francese Charles Daubigny.
L’influenza della tradizione di pittura en plein-air, in particolare dei Barbizonniers, si nota invece nell’opera di alcuni artisti della Escola di Olot, fondata da Joaquim Vayreda (1843-1894) a Barcellona e lui stesso membro fondatore, più tardi, del Cercle de Sant Luc, una associazione di artisti di profonda fede cattolica e dall’deologia molto conservatrice eppure vicini, per stile, all’estetica modernista. Del Museu Nacional d’Art de Catalunya si ricorda la luminosa tela raffigurante un Bosco con alberi in fiore, del 1893 (78 x 138,3 cm), che nel segno attento e nell’approccio fotografico ricorda sia l’insegnamento del francese François Millet che dei Preraffaelliti inglesi.
Del 1891 è il dipinto di Joaquim Vancells (Terrasa, 1866 – Barcellona, 1942) dal titolo Febbraio: paesaggio, esposto alla prima Esposizione generale di Belle Arti di Barcellona di quello stesso 1891 (oggi allo stesso Museu Nacional di Barcellona, 102,5 x 155,5 cm). Il bosco appare nella sua veste invernale, intriso di una leggera nebbia il cui grigiore contrasta con le foglie dorate a terra. Anche questo quadro mostra una accentuata vocazione al realismo descrittivo, ma la pennellata sciolta e mossa rivela la sensibilità più moderna dell’artista.
Tra le opere dedicate da Van Gogh al nostro tema, un posto d’eccezione spetta al dipinto raffigurante Bosco e sottobosco (Amsterdam, Van Gogh Museum, olio su tela, 46,5 x 56,5 cm), eseguito nell’estate del 1887.
Il motivo della fitta vegetazione gli viene ispirata forse anche dall’opera di Narcisse Diaz de la Peña (di cui si riporta qui una tela del Museum of Art di Dallas, Texas, 84x111 cm, del 1868), uno dei più celebri maestri dell’Ècole de Barbizon, specialista nel rendere i giochi di luce in queste situazioni di natura. Nel dipinto di Van Gogh, scorgiamo una sottile vena simbolica nell’edera che si abbarbica sugli alberi: metafora e desiderio di legame affettivo da parte del pittore.
Ormai a un passo da una visione astraente e non più fenomenica è l’interpretazione data da un allievo di Gauguin, Paul Serusier, ne Le Talisman (ottobre 1888, 27 x 21 cm, olio su legno, Parigi, Musée d’Orsay). Dipinto a Pont-Aven, Sérusier porta il piccolo dipinto a Parigi e lo mostra a suoi giovani colleghi (i futuri “nabis”, ossia “profeti” in lingua ebraica) facendolo diventare il “Talismano” della confraternita.
Solo guardandolo attentamente è possibile scorgere il bosco in alto a sinistra (il cosiddetto Bois d’Amour), la strada trasversale, la fila di faggi sulla riva del fiume e il mulino in fondo sulla destra. Le macchie di colore, stese libere e senza finalità mimetiche, rispondono in pieno alla nuova poetica del sintetismo inaugurata da Gauguin, il quale aveva fatto a Sérusier il seguente discorso: «Come vedete questi alberi? Sono gialli. Ebbene metteteci del giallo; quest’ombra, decisamente blu, coloratela di una tonalità blu oltremare puro; queste foglie rosse? Dipingetele di vermiglio». Il superamento della lezione impressionista è ormai avvenuto, nonostante ancora non si abbia il coraggio di lavorare lontano dalla natura e dal paesaggio stesso. Come avviene anche, ma con altri risultati, in Cézanne.
In pieno clima simbolista è Serenità, detto anche Il sacro bosco, grande tela del francese Henri Martin (1860-1943) conservata al Musée d’Orsay di Parigi.
La stesura del colore è divisionista, il che consente al pittore di conseguire effetti di luce naturalistici e realistici. Un approccio molto diverso rispetto dal dipinto di Paul Sérusier parimenti intitolato Il sacro bosco (o l’Incantesimo, conservato a Quimper, Musée des Beaux-Arts), dove a prevalere sono le qualità bidimensionali, semplificate e apparentemente ingenue già viste nel dipinto di Bernard, col quale peraltro condivide la medesima atmosfera di sacra e primitiva sospensione.
Dall’osservazione del bosco Paul Cézanne (1839-1906) ne ricava una sintesi formale fortemente schematica e geometrica, come nel dipinto dal titolo Neve sciolta a Fontainebleau del Museum of Modern Art (MOMA) di New York. Se dunque anche il precursore della scomposizione cubista si lasciò attrarre dalle atmosfere care ai molti pittori che, come abbiamo visto, frequentarono quella zona, il risultato è del tutto autonomo ed originale. La verticalità degli alberi e l’orizzontalità dei loro rami creano una armonica trama di linee, negli stessi anni (1879-80) in cui i colleghi Monet e Renoir coglievano il vento e il sole tra le foglie con la rapidità di un’impressione.
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