lunedì 11 novembre 2013

RITRATTO ANTICO

LE ORIGINI DEL RITRATTO VERISTICO
            Accanto al rilievo storico, il ritratto rappresenta il genere artistico che meglio esprime la specificità culturale di Roma, e che trova straordinaria diffusione a partire dall'Età repubblicana. Le sue origini vanno ricercate in ambito privato, nel culto degli antenati e nei riti funerari e, in ambito ufficiale, nelle pratiche onorarie volte alla celebrazione di uomini illustri della città. Del contesto privato parla lo storico greco Polibio nel II secolo a.C., che riferisce del privilegio, accordato ai patrizi attraverso una specifica norma di legge, lo jus imaginum, di conservare nell'atrio della propria casa le immagini degli antenati, identificate con il nome e disposte in teche, in modo da comporre una sorta di albero genealogico. Ogni discendente poteva portare nella nuova casa i ritratti degli avi, e questo diritto era esteso alle donne.
             Nel 166 a.C., Polibio, figlio di un personaggio in vista nella Lega Achea, era avanzato nella carriera militare e aveva avuto una educazione superiore. Contava circa 40 anni quando venne a Roma. La narrazione che questo intellettuale aperto e di animo libero ci ha lasciato della civiltà romana del suo tempo è tra i documenti più importanti e anche più antichi, oltre che genuini, che noi possediamo. E sono tra le più elevate pagine della letteratura di tutti i tempi quelle nelle quali Polibio narra il sorgere della sua amicizia con Scipione Emiliano, della cui famiglia fu ospite, che egli educò e che vent'anni dopo accompagnerà come consulente all'assedio di Cartagine.
             Nella sua lucidità intellettuale, Polibio riconosce che il tempo lavorava per i Romani e che la loro conquista dell'Oriente mediterraneo, Grecia compresa, era inevitabile. Pur essendo ben disposto, egli nota tutto ciò che trovava di diverso dai costumi della Grecia e ciò che lo colpì in modo particolare, come uso non altrove veduto, fu il rituale funerario del patriziato romano. Merita leggere quanto egli scrive (libro VI, 53 delle Storie): "Quando qualche illustre personaggio muore, celebrandosi le esequie, è portato con ogni pompa nel Foro presso ai cosiddetti rostri ed ivi posto quasi sempre diritto e ben visibile, raramente supino. Mentre tutto il popolo circonda il feretro, il figlio, se ne ha uno maggiorenne e se si trova presente, o in mancanza qualcuno della famiglia, sale sulla tribuna, rammenta le virtù del morto e le imprese felicemente compiute in vita. Perciò tra la moltitudine non solo coloro che hanno preso parte a quelle imprese, ma anche gli estranei, gli uni richiamando alla memoria e raffigurandosi gli altri il passato del defunto, tutti si commuovono a tal punto che la perdita appare non limitata a coloro che sono in lutto, ma comune a tutto il popolo.  Dopo la laudatio funebris, il morto si seppellisce con gli usuali riti funebri e la sua immagine, chiusa in un reliquiario di legno, viene portata nel luogo più visibile della casa. L'immagine è una maschera di cera che raffigura con notevole fedeltà la fisionomia e il colorito del defunto. In occasione di pubblici sacrifici espongono queste immagini e le onorano con ogni cura; e quando muore qualche illustre parente le portano in processione nei funerali, applicandole a persone che sembrano maggiormente somiglianti agli originali per statura e aspetto esteriore. Costoro, se il morto è stato console o pretore, indossano le toghe preteste (cioè orlate di porpora), se censore toghe di porpora, e ricamate in oro se ha ottenuto il trionfo o qualche altra onorificenza del genere. "Tutti costoro avanzano sui carri, preceduti dai fasci, dai littori, e dalle distinzioni, alle quali ciascuno aveva diritto secondo le cariche ricoperte in vita e, quando giungono alla tribuna dei rostri, tutti si seggono in fila. Non è facile per un giovane che aspiri alla fama e alla virtù vedere uno spettacolo più bello di questo. A chi mai non sarebbe di incitamento la vista delle immagini, per così dire, vive e ispiranti di uomini famosi per i loro meriti? Quale spettacolo potrebbe essere più bello di questo?".
            Questo genere è piena espressione dell'ambiente patrizio e senatoriale, in grado di esprimere in modo diretto e con sobria severità i princìpi su cui la nobiltà romana andava fondando l'identità del nuovo Stato. Con il ritratto veniva dichiarato il ruolo dell'individuo nel contesto della Repubblica, portatore di valori morali e di ideali civili da trasmettere ai posteri con intento pedagogico. Non a caso, il ritratto ebbe particolare fortuna nell'Età di Silla, grande conservatore dei privilegi dell'aristocrazia senatoria contro i fermenti politici e sociali dell'inizio del I secolo a.C.
            E' sul ritratto privato, dunque, che vengono fissati i caratteri di verosimiglianza fisionomica che distingueranno la produzione romana da quella ellenistica, e su cui saranno poi elaborate le varianti del ritratto ufficiale. Per buona parte del periodo repubblicano, Roma ha espresso un ostentato rifiuto nei confronti dell'arte greca, conosciuta attraverso i copiosi bottini di guerra giunti nella capitale dopo la sottomissione di Atene e la conquista di Corinto (146 a.C.). I valori estetici espressi dalla cultura ellenistica, infatti, erano in antitesi con la rigorosa austerità dei Romani, per i quali l'arte ha soddisfatto, fin dall'inizio, esigenze di natura politica e civile. Essa era funzionale all'esaltazione dell'individuo, capace di incarnare virtù civiche; doveva celebrare le gesta del condottiero o il valore politico di personaggi del patriziato, magistrati e senatori; serviva, ancora, a glorificare le grandi famiglie aristocratiche, sottolineandone le origini. Tuttavia, l'influenza dell'arte greca sulla produzione romana fu sostanziale per la definizione del genere del ritratto, proprio per la qualità tecnica e formale che garantiva, e da essa vennero assunti modelli di riferimento per una rilettura in chiave verista o celebrativa. D'altra parte, a Roma si sviluppò ben presto, in apparente contraddizione con il pragmatismo politico e la severità di costumi ostentata dagli oratori, un ricco collezionismo privato, che sostenne da un lato l'importazione massiccia di opere di Età classica o ellenistica, dall'altro lato la richiesta, nella capitale, di artisti greci. La riproduzione in numerosi esemplari di originali di Policleto, Prassitele, Lisippo, mostra come l'ammirazione per la cultura ellenistica, affermatasi con cautela nella tarda Età repubblicana in ambienti colti ed elitari, abbia connotato in Età imperiale il gusto romano.
            Il genere del busto-ritratto, limitato alla raffigurazione della testa e del collo, si mostra come tipo originale della produzione romana. Sviluppando una tradizione etrusco-italica, esso sostituisce l'erma, utilizzata in Grecia per raffigurare divinità (in origine segnatamente Ermes) e personaggi celebri. In Età romana l'erma si confuse quasi con il busto-ritratto, sviluppando, come si è visto, funzioni e significati del tutto diversi. Tuttavia, è importante ribadire come questo genere sia debitore tanto dei modelli dell'ellenismo, quanto della produzione italica, rielaborati ed assimilati in un linguaggio del tutto originale: dall'ellenismo gli scultori romani hanno assunto la cura nei dettagli e la morbidezza del modellato, reso attraverso variazioni chiaroscurali, ma soprattutto la capacità di introspezione psicologica; dalla produzione italica, affermatasi in particolare nella coroplastica, essi hanno ereditato la rappresentazione schiettamente realistica, con attenzione al dato fisionomico, entro un modellato severo. Se i modi ellenistici fungeranno da riferimento per la ritrattistica aulica ufficiale, la tradizione italica influenzerà maggiormente il ritratto privato ed avrà grande diffusione presso i ceti medi (si confrontino i due ritratti di Vespasiano qui proposti).
            Nell'evoluzione del genere ritrattistico distinguiamo, accanto al busto-ritratto, altri tipi che avranno diversa fortuna nei vari periodi dell'impero, quali la figura togata e quella loricata (figura solenne con lorica, la corazza istoriata), il tipo eroico, in cui una testa ritratto è collocata su un corpo idealizzato di tipo classico, la statua equestre.



Inoltre, dall'Età repubblicana ai secoli dell'impero possiamo individuare, per quanto schematicamente, un mutamento dei caratteri stilistici, condizionati anche dall'evoluzione della moda e del costume (le acconciature o la presenza della barba, ad esempio, hanno spesso guidato gli studiosi nella datazione delle opere): dal classicismo aulico ed "accademico" dell'Età di Augusto al realismo vigoroso dell'Età dei Flavi, ai marcati effetti chiaroscurali nell'Età degli Antonini e dei Severi, fino all'astrazione che caratterizzerà il ritratto a partire dall'Età costantiniana..    Il ruolo che il ritratto ha avuto per i Romani è testimoniato anche dalla sorte riservata alle effigi di personaggi divenuti impopolari dopo la morte: se la statua era un onore attribuito al soggetto, utile per tramandarne la memoria ai posteri attraverso l'immagine, personaggi come Tiberio, Caligola, Nerone, Commodo sono stati condannati all'oblio attraverso la rimozione delle effigi e dei nomi da statue, rilievi e iscrizioni.

Il RITRATTO ELLENISTICO
            Fin dall'Età arcaica, l'arte greca ha posto al centro della propria ricerca l'uomo, inteso come massima espressione di perfezione armonica, riflesso della divinità. Per questo, fino a tutto il V secolo, gli artisti non hanno voluto definire dei modelli: i  koùros e le kòrai arcaici, gli atleti e gli offerenti in Età classica, erano riferiti a immagini tipizzate, rispondenti ad un'idea di bellezza concettualizzata. D'altra parte, la produzione statuaria aveva una prevalente finalità pubblica ed era espressione di una radicata identità civile e politica, sia che le opere fossero pensate per la città che per destinazioni religiose, quali i santuari. Si pensi che fino alla metà del IV secolo era proibito collocare ritratti in contesti pubblici. Il genere, quindi, relegato all'ambito privato, non ebbe diffusione.
E' nel corso del IV secolo che maturò in campo artistico l'attenzione per i dati fisionomici, entro un quadro storico profondamente mutato e parallelamente al nuovo orientamento degli interessi in ambito filosofico e letterario verso l'individuo. La produzione artistica spinse agli estremi la ricerca naturalistica operata nei secoli precedenti e si interessò alla resa degli elementi individuali, soffermandosi sulle componenti psicologiche, emotive e sentimentali.   Ne derivò una ricerca sulla realtà che ha portato al superamento della concezione ideale di bellezza, per soffermarsi sulle componenti effimere o transitorie dell'uomo, nel ripiegamento intimista, nella dimensione privata.
            Questo percorso era già stato avviato nella tarda Età classica, quando la cura veristica si era affiancata alla sensibilità per la psicologia del soggetto. D'altra parte, in Età ellenistica l'arte, non più legata alla committenza della pòlis, è emanazione delle raffinate corti orientali, al cui interno la cultura greca si confronta e si contamina con i linguaggi dei territori conquistati da Alessandro. L'eleganza di costumi e la connotazione culturale si uniscono ad una straordinaria competenza tecnica; così, il dominio del mezzi espressivi porta la scultura al limite del virtuosismo formale, con forte accentuazione veristica, fino al raggiungimento di effetti illusionistici e accentuatamente patetici. Lisippo, ritrattista ufficiale di Alessandro Magno, superò il canone classico riferito al corpo umano, nella volontà di raffigurare l'uomo, secondo quanto riporta Plinio, non come è, ma come appare. Egli introdusse, in questo modo, un principio di relatività, derivato dalla sensibilità dell'osservatore, che trova riscontro nella scelta di fissare il soggetto in momenti transitori (come l'Apoxyòmenos); al tempo stesso egli avviò una ricerca espressiva che superava l'approccio idealizzante, ma che insieme rifiutava un atteggiamento schiettamente realistico. Lisippo creò, piuttosto, un'immagine del sovrano come eroe, volta a rappresentarne la grandezza morale. 

Il tipo introdotto nell'Erma di Azara (Parigi, Louvre) sarà riferimento fondamentale per la celebrazione dei sovrani ellenistici.
            Il ritratto eroico unisce il naturalismo di derivazione greca con elementi propri della tradizione orientale, quali l'estrema ricercatezza formale e l'espressione ieratica e ispirata, testimonianza della sua inarrivabile superiorità. Il tipo interpreta un'idea della regalità, quale andrà diffondendosi dopo la morte di Alessandro, molto lontana dalla concezione democratica della Grecia classica: il sovrano è l'essere ispirato, che comunica direttamente con la divinità, fino ad immedesimarsi in essa. Egli si riconosce, quindi, nella sua alterità, nel divino distacco, nella sublimazione dell'essere mortale. Quest'immagine, ieratica e idealizzata, è intesa come suprema bellezza.
            Nei ritratti di Alessandro ricorrono la tensione del capo verso l'alto e il disegno mosso delle ciocche dei capelli, che esprimono quella "audacia" o "animosità" che Properzio riconosceva alle opere di Lisippo. Così Plutarco, in Alessandro, afferma che "Quando Lisippo ebbe modellato per la prima volta un Alessandro che guardava in alto col volto verso il cielo, (...) qualcuno scrisse non senza persuasività l'epigramma: 'e quello di bronzo sembra uno che guardando Zeus sta per dire: la terra pongo sotto di me, Zeus, tu tieni l'Olimpo' ".Lisippo è, dunque, il protagonista di questo nuovo orientamento, che già nella seconda metà del IV secolo introdusse i caratteri dell'arte ellenistica; Plinio afferma che già Lisistrato, fratello di Lisippo, usava realizzare dei calchi sul volto dei personaggi per ricavarne le fattezze reali, mostrando così di privilegiare la somiglianza alla bellezza.
            La grande fioritura del ritratto in questo periodo deriva anche dall'aumentata richiesta privata; i soggetti sono sia uomini comuni, sia oratori, poeti, filosofi, personaggi celebri di un tempo, e ciò attesta la grande importanza riservata alla letteratura e alla filosofia; in essi il ruolo riconosciuto al pensiero e alle discipline speculative emerge dall'accentuazione espressiva o dall'intensità psicologica rea attraverso una meditata ricerca somatica. Accanto al modello del dinasta, si affermò in Età ellenistica il tipo del ritratto del filosofo, di cui l'effige lisippea di Socrate è considerata il prototipo. Non è secondario, in tal senso, l'influsso esercitato dalla rappresentazione teatrale, che spinse alla costruzione di effigi volte a fissare la memoria di eroi e di personaggi del passato, di cui non erano state tramandate le immagini.


IL RITRATTO NELLA PENISOLA ITALICA
Tra il IV e il II secolo a.C., si definì un linguaggio dai caratteri unitari nelle aree di influenza etrusca, in Lazio e nelle regioni abitate dai Piceni e dai Sanniti (approssimativamente dalle Marche al Molise, Abruzzo e Campania). Questa produzione, definita medio-italica, eserciterà una notevole influenza sull'arte romana, mantenendo comunque, anche dopo l'assoggettamento a Roma, una discreta autonomia a livello di produzione locale.
            Il linguaggio risente dell'influenza della cultura greca, in particolare attraverso le forme e i temi iconografici affermatisi nei territori dell'Italia Meridionale, ma presenta caratteri di originalità, soprattutto per la spontaneità espressiva, che non di rado giunge ad esiti anticlassici. All'interno di questa produzione si può distinguere da un lato un linguaggio colto e raffinato, vicino ai modi formali e ai soggetti greco-ellenistici, da un lato una componente più popolare, molto diffusa nelle regioni interne, in cui, a fronte di una sicura competenza tecnica, le forme sono piuttosto sommarie ed essenziali.
La cultura figurativa più ricca e originale è quella etrusca; tuttavia, la diffusione capillare dei modelli locali, in particolare sarcofagi e urne cinerarie, copiosamente prodotte dalle officine artigiane in tutto il territorio centro-italico, rende in molti casi difficile distinguere l'area di origine. D'altra parte, queste officine lavorano con modalità "seriale", sia per la committenza etrusca, sia per quella romana o campana.

Un esempio illustre di questa commistione linguistica è quella del cosiddetto Bruto Capitolino (metà del III secolo a.C. Bronzo, altezza 69 cm, Roma, Musei Capitolini). Realizzata in ambito laziale, l'opera presenta elementi di tradizione greca, riconoscibili nella qualità esecutiva, uniti a caratteri peculiari del linguaggio medio-italico, quali il realismo asciutto dei dati somatici e la fiera severità dell'espressione. Pur non essendo direttamente riferibile alla cultura figurativa etrusca o a quella romana, l'opera è esemplare del ruolo ideologico assunto dall'arte nella Roma repubblicana, e conferma la tendenza da parte della capitale ad acquisire modelli formali e riferimenti iconografici da culture diverse, convergenti nel suo ambito di influenza.
            La statuaria etrusca si è distinta fin dalle origini per la vitalità espressiva e per una incisiva tendenza realistica. Dai canopi dei secoli VI-V a.C., in cui il volto del defunto è reso con tratti sobri ed essenziali, alle teste sulle urne e sui sarcofagi, fino alle bellissime teste-ritratti dei secoli III-II a.C., questa produzione ha mostrato caratteri originali giungendo, in taluni casi, alla resa espressionistica. Resta comunque costante lo sforzo di caratterizzare individualmente i soggetti, nonostante una tendenza alla tipizzazione.
            La predilezione per la terracotta e il bronzo da parte degli scultori etruschi permette di comprendere la distanza delle loro opere dal composto naturalismo della coeva statuaria greca: le forme derivano dalla modellazione diretta della materia, la duttile argilla, sulla quale l'artigiano imprime segni e solchi, spesso con la semplice pressione delle mani. La nobiltà del materiale, la rifinitura e la levigatezza delle superfici delle sculture classiche, al contrario, bastavano da sole a determinare un'aura di distaccata bellezza. Nella realizzazione delle figure fittili di defunti per le lastre di copertura dei sarcofagi, le teste venivano realizzate a stampo, quindi caratterizzate individualmente con l'aggiunta di elementi ornamentali e delle capigliature, e attraverso essenziali indicazioni espressive.


            Esemplare del percorso compiuto dalla statuaria etrusca è la pregevole produzione in bronzo, tra cui emerge la statua votiva di Aule Meteli, detta l'Arringatore del Trasimeno per l'atteggiamento oratorio del soggetto. L'opera ben esprime l'ormai avvenuto processo di integrazione tra linguaggi e tradizioni culturali diverse, espressione di un mutato quadro storico; il naturalismo ellenistico si unisce ad un modellato netto ed essenziale, segnato da linee incise che conferiscono tensione e vivacità espressiva al gesto oratorio. Il ritratto veristico romano, nel I secolo a.C., nascerà proprio dalla fusione delle due tendenze fondamentali, quella di origine etrusco-italica, caratterizzata da un linguaggio sobrio e lineare, e quella aulica e raffinata delle corti ellenistiche.

LA RITRATTISTICA ROMANA

ETA' REPUBBLICANA
            Il tipo del ritratto di Età repubblicana si definì a partire dalla fine del II secolo a.C., e giunse a piena maturazione all'inizio del secolo successivo. Sono gli anni del consolidamento dell'aristocrazia senatoriale dopo il tentativo dei Gracchi, violentemente represso, di introdurre riforme sociali; il patriziato legittima il proprio ruolo politico affermando i valori morali di autorità e fermezza tramandati dai padri fondatori dello Stato.
            La fierezza spesso rude messa in risalto nei ritratti da uno stile incisivamente realistico, mostra chiaramente la distanza rispetto ai caratteri del ritratto ellenistico, in cui sia l'anonimo cittadino sia il sovrano eroizzato erano trattati con una raffinatezza al limite del virtuosismo, talvolta caricata di enfasi teatrale. L'influenza ellenistica sulla ritrattistica successiva è comunque tale da rendere difficile l'individuazione di precisi limiti cronologici nelle origini del genere in ambito romano. Si consideri, peraltro, il diffuso utilizzo di maestranze non locali, e segnatamente greche. 

 Opere come il Bruto Capitolino o il Busto detto di Seneca (Napoli, Museo Archeologico Nazionale) mostrano come il tentativo di circoscrivere forme e modelli entro precisi ambiti di appartenenza culturale appaia, tra il III e il I secolo a.C., motivo di forzatura interpretativa.
Il culto domestico degli antenati, l'esaltazione della gens e della casta, sono ben espressi nella Statua Barberini, in cui un patrizio ammantato in un'ampia toga, regge nelle mani i busti di due suoi avi; l'appartenenza alla stessa famiglia è sottolineata dall'elevata somiglianza dei volti. Senza voler riaffermare l'esistenza di una separazione netta tra produzione colta e plebea, di origine medio-italica, va comunque sottolineato che la tradizione ellenistica e quella realistica si sarebbero distinte per molto tempo in due generi: il ritratto privato, affermatosi in particolare nell'ambito dell'aristocrazia senatoriale, e il ritratto ufficiale.
Ritratto Torlonia
Anche nel caso del ritratto privato, comunque, l'effigie doveva sottolineare il ruolo civile del soggetto, il suo essere parte della Res publica. Per questo motivo esso non va considerato come la trasposizione in marmo del calco in cera realizzato sul volto del defunto, ma come l'interpretazione in chiave didattica e moraleggiante di un soggetto.
Nella produzione ufficiale, invece, emerge con evidenza l'influsso ellenistico, in particolare nell'attenzione posta alla componente intellettuale dei soggetti. Esemplare è il ritratto di Pompeo Magno, in cui si fondono mirabilmente le esigenze di verosimiglianza fisionomica e gli elementi di derivazione greca, secondo un modulo stilistco che fungerà da matrice per la ritrattistica ufficiale della prima Età imperiale.

ETA' IMPERALE
            Quando Ottaviano ricevette dal Senato il titolo di Augusto, nel 27 a.C., affiancò al programma di consolidamento del proprio potere una politica culturale volta a celebrare la pacificazione delle provincie dell'impero e a diffondere i princìpi su cui si basava la solidità dello Stato. Questa funzione ideologica dell'arte si manifesta con evidenza nei due principali generi scultorei romani, il rilievo storico e il ritratto. Per quest'ultimo, in particolare, vennero definiti alcuni modelli, rielaborati dal vasto repertorio della statuaria greca, utilizzato, spesso senza coerenza stilistica, in base ai contenuti da esprimere.
            L'immagine del Divo Augusto, d'altra parte, divenne il simbolo stesso di Roma, modello immutato nel tempo, in quanto espressione di valori assoluti. Le statue imperiali venivano replicate, anche in materiali diversi e pregiatissimi (oltre al bronzo e al marmo, anche l'oro e l'argento) e diffuse capillarmente in tutte le provincie; i  modelli ufficiali, tanto quelli creati a Roma che nelle aree periferiche dell'impero, venivano poi copiati e rielaborati, dando origine a varianti. I principali esempi riguardano proprio le immagini auliche dell'imperatore. In particolare, la statua di Augusto loricato   diverrà il prototipo delle rappresentazioni degli imperatori in veste militare.
            L'atteggiamento della figura ripropone la ponderatio del Doriforo di Policleto, mentre il braccio sollevato nell'allocuzione ai soldati deriva dall'Arringatore etrusco. Il volto rivela fedeltà dei tratti somatici, ma anche elementi idealizzati, che gli conferiscono un'astratta serenità ed una sicurezza regale. Questi caratteri, però, ne determinano anche il distacco e la freddezza, quasi didascalica, che ha contrassegnato la produzione ufficiale di Età augustea.
Il principe indossa una corazza (lorica) riccamente decorata da bassorilievi sopra una corta tunica militare; l’ampio mantello, il paludamentum, è avvolto attorno ai fianchi e sostenuto dal braccio sinistro. Nella ponderazione chiastica del corpo, nella torsione del capo e nelle belle proporzioni è evidente la quasi pedissecua ispirazione, già lo si è detto, del pur ottimo artista al famoso Doriforo di Policleto. Romano è però lo splendido ritratto fisionomico di Augusto, dalla capigliatura a ciocche “fiammate” (il ciuffo di capelli sulla fronte è detto anastolé) e dai tratti lievemente idealizzati, appena inaspriti dal taglio metallico di alcuni passaggi, secondo il gusto classicistico neoattico; romana è, soprattutto, la corazza, che imita sontuosi modelli da parata e rappresenta un piccolo capolavoro di toreutica tradotto nel marmo.
In alto, la quadriga del Sole corre, preceduta da Aurora e Fosforo, nel Cielo personificato; al centro, fra le personificazioni di due province riportate all’ordine da Tiberio, la Germania e la Pannonia, è il re dei Parti, Fraate IV, che restituisce a Tiberio, curiosamente accompagnato da un cane, le insegne strappate dai Parti a Licinio Crasso nel 53 a.C., nella battaglia di Carrhae (episodio che avvenne nel 20 a.C.); in basso è la personificazione della Terra, affiancata dalle immagini di Apollo con la lira sul dorso di un grifone e di Diana su quello di una cerva. In base a queste figurazioni si può proporre una datazione della statua all’8 o 7 a.C., gli anni decisivi dell’ascesa di Tiberio al ruolo di successore di Augusto. Le glorie militari del figlio di Livia raffigurate sulla corazza del principe, peraltro a sua volta celebrato con allusioni divine (il Sole sotto la volta del Cielo, Apollo sul grifone) sembrano un implicito manifesto politico a favore della sua adozione. Non a caso la statua venne realizzata per la villa di Livia, e fu ritrovata nel 1863. Augusto viene raffigurato nel gesto di chiedere il silenzio per rivolgere un discorso alle truppe, analogamente a quel che si vede nella statua detta dell’Arringatore. Gli imperatori della dinastia giulio-claudia (dal 37 al 54 si succedettero Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone) adottarono lo stile aulico introdotto da Augusto, codificato sui princìpi espressi dall'arte greca all'apice del suo splendore.
Nel corso dell'Età imperiale si affermarono, in particolare, alcuni modelli, diffusi in tutti i territori dell'impero attraverso numerosissime copie: oltre alla statua loricata, il nudo eroico, derivato dal bronzo ellenistico di Demetrio I, re di Siria, il busto-ritratto e la statua equestre, sul prototipo dell'Alessandro Magno a cavallo realizzato da Lisippo.
Le statue di tipo eroico, come quelle raffiguranti Vespasiano e Tito, in ui il volto con le fattezze reali è sovrapposto ad un corpo nudo idealizzato, sono esplicita testimonianza della tendenza all'eclettismo da parte degli artisti romano, che assumendo tipi derivati da culture figurative diverse per scopi politici, non hanno saputo farne proprio il significato, snaturandolo.
Il busto-ritratto rappresenta il genere più diffuso in Età imperiale, e trova definizione, ancora, nei due tipi del ritratto ufficiale, derivato dal tipo del Pompeo Magno, e di quello privato, ad uso familiare e funerario, segnato da una realistica resa fisionomica. Tale distinzione è evidente per gli imperatori della dinastia dei Flavi (Vespasiano, Tito e Domiziano, imperatori dal 69 al 96 d.C.), tanto che lo stesso soggetto poteva essere effigiato in modo sensibilmente diverso in base alla destinazione dell'opera (i ritratti di Vespasiano ne sono un buon esempio).
 Ritratto di Vespasiano, 69-70 d.C., Copenaghen, Ny Carlsberg Glyptotek.
Ritratto di Vespasiano, 69-70 d.C., Roma, Museo Nazionale Romano.

Il ritratto privato, anche di cittadini comuni, mostra di frequente una diretta derivazione dai modelli diffusi nei ceti più elevati; questo legame è testimoniato dai busti-ritratto posti nelle tombe di famiglie: una pratica diffusa tra i liberti (schiavi liberi).
In Età traianea si attenuò la distinzione tra ritratto ufficiale e ritratto privato: la stessa immagine dell'imperatore era realistica e la sua grandezza era espressa dalla nobile fermezza dell'immagine, dalla lealtà che essa comunicava. Nel corso del II secolo si è avviato un processo di allontanamento dal rigore veristico romano, che ha segnato, con fasi alterne, gli ultimi secoli dell'impero. 
Ritratto di Adriano
Sotto il principato di Adriano, il richiamo nostalgico ai valori del classicismo greco ha determinato un ritorno a immagini idealizzate; diversamente dal classicismo augusteo, però, quello affermato da Adriano si caricò di una partecipata intensità intellettuale, in immagini tendenti ad una sublimata bellezza.
            Per Marco Aurelio, la scelta del linguaggio greco significò affermazione di valori morali ispirati al rigore ed alla razionalità della filosofia stoica. Il naturalismo e la coerenza formale accettata da tutti gli imperatori come garanzia di sovranità, lasciò progressivamente il posto a soluzioni formali orientate ad una maggiore accentuazione espressionistica e sostenute da una lavorazione del marmo incisiva e contrastata; questa tendenza è chiaramente riscontrabile nei rilievi storici, ma anche, pur se in misura minore, nei ritratti.
           

Dalla seconda metà del II secolo, a partire dal principato di Commodo,  succeduto a Marco Aurelio, la produzione artistica divenne chiara testimone della crisi della società romana, percorsa da correnti religiose di origine orientale ispirate ad un misticismo ormai lontano dalla razionalità della cultura greca. Il linguaggio figurativo mescola in questi anni elementi ereditati dalla precedente iconografia con altri che denotano l'insorgere di tendenze visionarie o misticheggianti, dichiarando la disgregazione, ormai in atto, dell'equilibrio classico.   I ritratti del'imperatore mostrano una lavorazione accurata del marmo, tale da realizzare effetti di straniamento e di distacco del soggetto dalla realtà. Il volto presenta superfici levigate e prive di segni caratterizzanti, al punto che gli stessi occhi, più che modellati, sono tracciati con linee incise; la barba e soprattutto i capelli sono, invece, fittamente lavorati, esaltando per contrasto la morbidezza chiaroscurale dell'incarnato.   Questa sorta di sublimazione dell'immagine del princeps contrasta con la memoria che di Commodo la storia ci ha lasciato, cioè quella di un sovrano che ha esercitato un potere assoluto, tra corruzione e terrore, in una pretesa di onnipotenza.
            Nel corso del III secolo si affermarono gli elementi della cosiddetta arte tardoantica, lunga fase di transizione tra mondo antico e Alto Medioevo. Prende avvio il processo di disgregazione dell'impero, minacciato ai confini dalle popolazioni barbariche e all'interno dal disordine e dalla miseria di sempre più ampi strati di popolazione. Roma perde il proprio ruolo di centralità, tanto che gli stessi imperatori, spesso proclamati con il sostegno dell'esercito contro gli interessi del Senato, non appartenevano più alle dinastie patrizie. Il questo contesto di instabilità politica, allo sgretolamento dei confini corrisponde l'intensificarsi di fermenti sociali e la ricerca di nuove forme di spiritualità: valga, come esempio, la grande diffusione del culto orientale di Mitra o del Cristianesimo.
            La concezione classica dell'arte, che per secoli aveva sostenuto l'immagine ufficiale del potere, entrò definitivamente in crisi, e con essa il naturalismo, l'equilibrio formale e la vitalità che ne erano stati i caratteri costanti. Le forme con cui si era espressa la razionalità della statuaria ellenistica non possono esprimere l'instabilità e le tensioni irrazionali che percorrono il mondo romano, e lasciano il posto a linguaggi che testimoniano la perdita di certezze e la ricerca di nuovi valori religiosi o il fascino suscitato da nuove correnti di pensiero. Il ritratto imperiale, tuttavia, trova un momento di rinnovata fortuna all'inizio del II secolo, con la dinastia dei Severi

nei ritratti di Caracalla, in particolare, si evidenzia la volontà di tornare ad un realismo incisivo, in cui la fermezza del potere diviene assolutismo e paurosa minaccia. Le tenenze anticlassiche, proprie dell'arte alla fine del III secolo, si affermarono in modo definitivo nel corso del IV secolo, e segneranno i caratteri del ritratto fino alla fine dell'impero.
Le effigi imperiali, in quanto espressione della concezione del potere, mostrano con efficacia i cambiamenti storici in atto, e l'immagine del principe, un tempo primus inter pares, diviene quella di un sovrano dall'illimitato potere
Eliogabalo, primi del III secolo d.C.
Se già a partire da Tito la persona dell'imperatore veniva divinizzata dopo la morte, Eliogabalo introdusse riti di adorazione della figura imperiale.
La nuova accezione del potere venne diffusa attraverso un'immagine innaturalmente astratta, composta da forme semplificate e massicce, in cui i tratti somatici, la capigliatura e le sopracciglia sono spesso affidati a linee incise che percorrono superfici regolari e squadrate. La dimensione di distaccata e inarrivabile sacralità è affidata in primo luogo agli occhi, innaturalmente grandi, allo sguardo intenso e lontano. Questa idealizzazione del soggetto si unisce alla forza espressiva data proprio dall'intensità dello sguardo e dalla fermezza dei tratti.
Il superamento del ritratto fisionomico determinò l'introduzione di tipi convenzionali, spesso non riferibili con certezza ad un personaggio. 
H.Fussli, l'artista sgomento di fronte alla grandezza delle rovine antiche, Milano, Civiche raccolte Bertarelli, 1778-80.

La connotazione simbolica dell'immagine imperiale trovò esito emblematico nella Statua colossale di Costantino, un tempo posta nell'abside della Basilica di Massenzio. Le straordinarie dimensioni della statua, la rigida frontalità del volto e la fissità ieratica dello sguardo traducono l'immagine in una sorta di apparizione. E' con Costantino, d'altra parte, che viene introdotta l'idea del princeps non come divinità ma come diretta emanazione e tramite, sua immagine tangibile. Nell'immobilità della raffigurazione gli elementi di verosimiglianza vengono irrigiditi e trasfigurati; la calotta della chioma, fittamente incisa, e i tratti resi con nitidi intagli testimoniano il solco ormai tracciato. Va peraltro considerato come nella trasformazione del ritratto imperiale abbia svolto un importante ruolo la diffusione dei linguaggi provinciali e dell'arte plebea, ormai prevalenti anche negli edifici onorari, di cui esemplare è l'Arco di Costantino, a Roma.


I Tetrarchi, Venezia, esterno della Basilica di San Marco

Sul lato sud della Basilica di San Marco a Venezia è collocato un celebre gruppo scultoreo formato dall'assemblaggio di due elementi e databile, a seconda che lo si voglia ritenere di provenienza romana o costantinopolitana, intorno al 300, all'epoca della prima tetrarchia, oppure al primo quarto del IV secolo, all'epoca della seconda. Vi sono rappresentati, su due lati, i due Augusti e i due Cesari in simmetrico abbraccio, a propagandare l'immagine della concordia degli imperatori, nelle difficoltà (e nei contrasti) della suddivisione del governo imperiale. Le figure sono rigidi manichini identicamente abbigliati, a malapena distinti da qualche diversità nei tratti del viso, bloccati in una posa destinata al pubblico. I volti e gli sguardi sono fissi e inespressivi, resi con durezza, come le innaturali pieghe dei panneggi: si potrebbe pensare all'opera di un artista di scarso valore, se non fosse per due fondamentali fattori. Osserviamo il dettaglio delle impugnature delle spade: secondo una moda di provenienza barbarica recepita nel mondo provinciale romano, sono sagomate a testa di rapace e sicuramente riproducono modelli reali in metallo prezioso e, forse, niellate, o incrostate con pietre dure, avorio, paste vitree o smalti policromi. Tanta finezza di dettagli comprova che l'anticlassicismo dell'autore dei Tetrarchi fu una scelta intenzionale, così come intenzionale, e altamente simbolica, fu l'adozione di un materiale scultoreo durissimo e pregiato, il porfido rosso, proveniente dalle cave di proprietà imperiale situate in Egitto, dal colore tanto simile alla porpora delle vesti regali e per questo ritenuto adatto a rappresentare la maestà di domini et dei. Siamo di fronte a un'opera rivoluzionaria: una sovrana indifferenza per l'estetica classica regna in questo linguaggio della crisi; ciò che conta è, a costo della rottura di ogni residuo equilibrio, tradurre energicamente il concetto (la concordia) in un simbolo (l'abbraccio fra i tetrarchi) in funzione politica propagandistica. Quella che percepiamo come durezza e forte semplificazione formale è il risultato ancora di una intenzionale scelta estetica finalizzata a creare un'immagine di lineare, immediato e poderoso impatto visivo e concettuale sui destinatari (i sudditi dell'impero).

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