LE ORIGINI DEL
RITRATTO VERISTICO
Accanto al rilievo storico, il
ritratto rappresenta il genere artistico che meglio esprime la specificità
culturale di Roma, e che trova straordinaria diffusione a partire dall'Età
repubblicana. Le sue origini vanno ricercate in ambito privato, nel culto degli
antenati e nei riti funerari e, in ambito ufficiale, nelle pratiche onorarie
volte alla celebrazione di uomini illustri della città. Del contesto privato
parla lo storico greco Polibio nel II secolo a.C., che riferisce del privilegio,
accordato ai patrizi attraverso una specifica norma di legge, lo jus
imaginum, di conservare nell'atrio della propria casa le immagini degli
antenati, identificate con il nome e disposte in teche, in modo da comporre una
sorta di albero genealogico. Ogni discendente poteva portare nella nuova casa i
ritratti degli avi, e questo diritto era esteso alle donne.
Nel 166 a.C., Polibio, figlio di un personaggio
in vista nella Lega Achea, era avanzato nella carriera militare e aveva avuto
una educazione superiore. Contava circa 40 anni quando venne a Roma. La
narrazione che questo intellettuale aperto e di animo libero ci ha lasciato
della civiltà romana del suo tempo è tra i documenti più importanti e anche più
antichi, oltre che genuini, che noi possediamo. E sono tra le più elevate
pagine della letteratura di tutti i tempi quelle nelle quali Polibio narra il
sorgere della sua amicizia con Scipione Emiliano, della cui famiglia fu ospite,
che egli educò e che vent'anni dopo accompagnerà come consulente all'assedio di
Cartagine.
Nella sua lucidità intellettuale, Polibio
riconosce che il tempo lavorava per i Romani e che la loro conquista
dell'Oriente mediterraneo, Grecia compresa, era inevitabile. Pur essendo ben
disposto, egli nota tutto ciò che trovava di diverso dai costumi della Grecia e
ciò che lo colpì in modo particolare, come uso non altrove veduto, fu il
rituale funerario del patriziato romano. Merita leggere quanto egli scrive
(libro VI, 53 delle Storie): "Quando qualche illustre personaggio muore,
celebrandosi le esequie, è portato con ogni pompa nel Foro presso ai cosiddetti
rostri ed ivi posto quasi sempre diritto e ben visibile, raramente supino.
Mentre tutto il popolo circonda il feretro, il figlio, se ne ha uno maggiorenne
e se si trova presente, o in mancanza qualcuno della famiglia, sale sulla
tribuna, rammenta le virtù del morto e le imprese felicemente compiute in vita.
Perciò tra la moltitudine non solo coloro che hanno preso parte a quelle
imprese, ma anche gli estranei, gli uni richiamando alla memoria e
raffigurandosi gli altri il passato del defunto, tutti si commuovono a tal
punto che la perdita appare non limitata a coloro che sono in lutto, ma comune
a tutto il popolo. Dopo la laudatio
funebris, il morto si seppellisce con gli usuali riti funebri e la sua
immagine, chiusa in un reliquiario di legno, viene portata nel luogo più
visibile della casa. L'immagine è una maschera di cera che raffigura con
notevole fedeltà la fisionomia e il colorito del defunto. In occasione di
pubblici sacrifici espongono queste immagini e le onorano con ogni cura; e
quando muore qualche illustre parente le portano in processione nei funerali,
applicandole a persone che sembrano maggiormente somiglianti agli originali per
statura e aspetto esteriore. Costoro, se il morto è stato console o pretore,
indossano le toghe preteste (cioè orlate di porpora), se censore toghe di
porpora, e ricamate in oro se ha ottenuto il trionfo o qualche altra
onorificenza del genere. "Tutti costoro avanzano sui carri, preceduti dai
fasci, dai littori, e dalle distinzioni, alle quali ciascuno aveva diritto
secondo le cariche ricoperte in vita e, quando giungono alla tribuna dei rostri,
tutti si seggono in fila. Non è facile per un giovane che
aspiri alla fama e alla virtù vedere uno spettacolo più bello di questo. A chi
mai non sarebbe di incitamento la vista delle immagini, per così dire, vive e
ispiranti di uomini famosi per i loro meriti? Quale spettacolo potrebbe essere
più bello di questo?".
Questo genere è piena espressione
dell'ambiente patrizio e senatoriale, in grado di esprimere in modo diretto e
con sobria severità i princìpi su cui la nobiltà romana andava fondando
l'identità del nuovo Stato. Con il ritratto veniva dichiarato il ruolo
dell'individuo nel contesto della Repubblica, portatore di valori morali e di
ideali civili da trasmettere ai posteri con intento pedagogico. Non a caso, il
ritratto ebbe particolare fortuna nell'Età di Silla, grande conservatore dei
privilegi dell'aristocrazia senatoria contro i fermenti politici e sociali
dell'inizio del I secolo a.C.
E' sul ritratto privato, dunque, che
vengono fissati i caratteri di verosimiglianza fisionomica che distingueranno
la produzione romana da quella ellenistica, e su cui saranno poi elaborate le
varianti del ritratto ufficiale. Per buona parte del periodo repubblicano, Roma
ha espresso un ostentato rifiuto nei confronti dell'arte greca, conosciuta
attraverso i copiosi bottini di guerra giunti nella capitale dopo la
sottomissione di Atene e la conquista di Corinto (146 a.C.). I valori estetici
espressi dalla cultura ellenistica, infatti, erano in antitesi con la rigorosa
austerità dei Romani, per i quali l'arte ha soddisfatto, fin dall'inizio,
esigenze di natura politica e civile. Essa era funzionale all'esaltazione
dell'individuo, capace di incarnare virtù civiche; doveva celebrare le gesta
del condottiero o il valore politico di personaggi del patriziato, magistrati e
senatori; serviva, ancora, a glorificare le grandi famiglie aristocratiche,
sottolineandone le origini. Tuttavia, l'influenza dell'arte greca sulla
produzione romana fu sostanziale per la definizione del genere del ritratto, proprio
per la qualità tecnica e formale che garantiva, e da essa vennero assunti
modelli di riferimento per una rilettura in chiave verista o celebrativa.
D'altra parte, a Roma si sviluppò ben presto, in apparente contraddizione con
il pragmatismo politico e la severità di costumi ostentata dagli oratori, un
ricco collezionismo privato, che sostenne da un lato l'importazione massiccia
di opere di Età classica o ellenistica, dall'altro lato la richiesta, nella
capitale, di artisti greci. La riproduzione in numerosi esemplari di originali
di Policleto, Prassitele, Lisippo, mostra come l'ammirazione per la cultura
ellenistica, affermatasi con cautela nella tarda Età repubblicana in ambienti
colti ed elitari, abbia connotato in Età imperiale il gusto romano.
Il genere del busto-ritratto,
limitato alla raffigurazione della testa e del collo, si mostra come tipo
originale della produzione romana. Sviluppando una tradizione etrusco-italica,
esso sostituisce l'erma, utilizzata in Grecia per raffigurare divinità (in
origine segnatamente Ermes) e personaggi celebri. In Età romana l'erma si
confuse quasi con il busto-ritratto, sviluppando, come si è visto, funzioni e
significati del tutto diversi. Tuttavia, è importante ribadire come questo
genere sia debitore tanto dei modelli dell'ellenismo, quanto della produzione
italica, rielaborati ed assimilati in un linguaggio del tutto originale: dall'ellenismo gli scultori romani hanno assunto la cura nei dettagli e la
morbidezza del modellato, reso attraverso variazioni chiaroscurali, ma
soprattutto la capacità di introspezione psicologica; dalla produzione italica,
affermatasi in particolare nella coroplastica, essi hanno ereditato la
rappresentazione schiettamente realistica, con attenzione al dato fisionomico,
entro un modellato severo. Se i modi ellenistici fungeranno da riferimento per
la ritrattistica aulica ufficiale, la tradizione italica influenzerà
maggiormente il ritratto privato ed avrà grande diffusione presso i ceti medi
(si confrontino i due ritratti di Vespasiano qui proposti).
Nell'evoluzione del genere
ritrattistico distinguiamo, accanto al busto-ritratto, altri tipi che avranno
diversa fortuna nei vari periodi dell'impero, quali la figura togata e quella
loricata (figura solenne con lorica, la corazza istoriata), il tipo eroico, in
cui una testa ritratto è collocata su un corpo idealizzato di tipo classico, la
statua equestre.
Inoltre,
dall'Età repubblicana ai secoli dell'impero possiamo individuare, per quanto
schematicamente, un mutamento dei caratteri stilistici, condizionati anche
dall'evoluzione della moda e del costume (le acconciature o la presenza della
barba, ad esempio, hanno spesso guidato gli studiosi nella datazione delle
opere): dal classicismo aulico ed "accademico" dell'Età di Augusto al
realismo vigoroso dell'Età dei Flavi, ai marcati effetti chiaroscurali nell'Età
degli Antonini e dei Severi, fino all'astrazione che caratterizzerà il ritratto
a partire dall'Età costantiniana.. Il
ruolo che il ritratto ha avuto per i Romani è testimoniato anche dalla sorte
riservata alle effigi di personaggi divenuti impopolari dopo la morte: se la
statua era un onore attribuito al soggetto, utile per tramandarne la memoria ai
posteri attraverso l'immagine, personaggi come Tiberio, Caligola, Nerone,
Commodo sono stati condannati all'oblio attraverso la rimozione delle effigi e
dei nomi da statue, rilievi e iscrizioni.
Il RITRATTO
ELLENISTICO
Fin
dall'Età arcaica, l'arte greca ha posto al centro della propria ricerca l'uomo,
inteso come massima espressione di perfezione armonica, riflesso della
divinità. Per questo, fino a tutto il V secolo, gli artisti non hanno voluto
definire dei modelli: i koùros e le
kòrai arcaici, gli atleti e gli offerenti in Età classica, erano riferiti a
immagini tipizzate, rispondenti ad un'idea di bellezza concettualizzata.
D'altra parte, la produzione statuaria aveva una prevalente finalità pubblica
ed era espressione di una radicata identità civile e politica, sia che le opere
fossero pensate per la città che per destinazioni religiose, quali i santuari.
Si pensi che fino alla metà del IV secolo era proibito collocare ritratti in
contesti pubblici. Il genere, quindi, relegato all'ambito privato, non ebbe
diffusione.
E' nel corso del
IV secolo che maturò in campo artistico l'attenzione per i dati fisionomici,
entro un quadro storico profondamente mutato e parallelamente al nuovo
orientamento degli interessi in ambito filosofico e letterario verso
l'individuo. La produzione artistica spinse agli estremi la ricerca
naturalistica operata nei secoli precedenti e si interessò alla resa degli
elementi individuali, soffermandosi sulle componenti psicologiche, emotive e
sentimentali. Ne derivò una ricerca
sulla realtà che ha portato al superamento della concezione ideale di bellezza,
per soffermarsi sulle componenti effimere o transitorie dell'uomo, nel
ripiegamento intimista, nella dimensione privata.
Questo percorso era già stato
avviato nella tarda Età classica, quando la cura veristica si era affiancata
alla sensibilità per la psicologia del soggetto. D'altra parte, in Età
ellenistica l'arte, non più legata alla committenza della pòlis, è emanazione
delle raffinate corti orientali, al cui interno la cultura greca si confronta e
si contamina con i linguaggi dei territori conquistati da Alessandro.
L'eleganza di costumi e la connotazione culturale si uniscono ad una
straordinaria competenza tecnica; così, il dominio del mezzi espressivi porta
la scultura al limite del virtuosismo formale, con forte accentuazione
veristica, fino al raggiungimento di effetti illusionistici e accentuatamente
patetici. Lisippo, ritrattista ufficiale di Alessandro Magno, superò il
canone classico riferito al corpo umano, nella volontà di raffigurare l'uomo,
secondo quanto riporta Plinio, non come è, ma come appare. Egli introdusse, in
questo modo, un principio di relatività, derivato dalla sensibilità
dell'osservatore, che trova riscontro nella scelta di fissare il soggetto in
momenti transitori (come l'Apoxyòmenos); al tempo stesso egli avviò una
ricerca espressiva che superava l'approccio idealizzante, ma che insieme
rifiutava un atteggiamento schiettamente realistico. Lisippo creò, piuttosto,
un'immagine del sovrano come eroe, volta a rappresentarne la grandezza morale.
Il tipo introdotto nell'Erma di Azara (Parigi, Louvre) sarà
riferimento fondamentale per la celebrazione dei sovrani ellenistici.
Il ritratto eroico unisce il
naturalismo di derivazione greca con elementi propri della tradizione
orientale, quali l'estrema ricercatezza formale e l'espressione ieratica e
ispirata, testimonianza della sua inarrivabile superiorità. Il tipo interpreta
un'idea della regalità, quale andrà diffondendosi dopo la morte di Alessandro,
molto lontana dalla concezione democratica della Grecia classica: il sovrano è
l'essere ispirato, che comunica direttamente con la divinità, fino ad
immedesimarsi in essa. Egli si riconosce, quindi, nella sua alterità, nel divino
distacco, nella sublimazione dell'essere mortale. Quest'immagine, ieratica e
idealizzata, è intesa come suprema bellezza.
Nei ritratti di Alessandro ricorrono
la tensione del capo verso l'alto e il disegno mosso delle ciocche dei capelli, che esprimono
quella "audacia" o "animosità" che Properzio riconosceva
alle opere di Lisippo. Così Plutarco, in Alessandro, afferma che "Quando
Lisippo ebbe modellato per la prima volta un Alessandro che guardava in alto
col volto verso il cielo, (...) qualcuno scrisse non senza persuasività
l'epigramma: 'e quello di bronzo sembra uno che guardando Zeus sta per dire:
la terra pongo sotto di me, Zeus, tu tieni l'Olimpo' ".Lisippo è, dunque,
il protagonista di questo nuovo orientamento, che già nella seconda metà del IV
secolo introdusse i caratteri dell'arte ellenistica; Plinio afferma che già
Lisistrato, fratello di Lisippo, usava realizzare dei calchi sul volto dei
personaggi per ricavarne le fattezze reali, mostrando così di privilegiare la
somiglianza alla bellezza.
La grande fioritura del ritratto in
questo periodo deriva anche dall'aumentata richiesta privata; i soggetti sono
sia uomini comuni, sia oratori, poeti, filosofi, personaggi celebri di un
tempo, e ciò attesta la grande importanza riservata alla letteratura e alla
filosofia; in essi il ruolo riconosciuto al pensiero e alle discipline
speculative emerge dall'accentuazione espressiva o dall'intensità psicologica
rea attraverso una meditata ricerca somatica. Accanto al modello del dinasta,
si affermò in Età ellenistica il tipo del ritratto del filosofo, di cui l'effige
lisippea di Socrate è considerata il prototipo. Non è secondario, in
tal senso, l'influsso esercitato dalla rappresentazione teatrale, che spinse
alla costruzione di effigi volte a fissare la memoria di eroi e di personaggi
del passato, di cui non erano state tramandate le immagini.
IL RITRATTO
NELLA PENISOLA ITALICA
Tra il IV e il
II secolo a.C., si definì un linguaggio dai caratteri unitari nelle aree di
influenza etrusca, in Lazio e nelle regioni abitate dai Piceni e dai Sanniti
(approssimativamente dalle Marche al Molise, Abruzzo e Campania). Questa
produzione, definita medio-italica, eserciterà una notevole influenza
sull'arte romana, mantenendo comunque, anche dopo l'assoggettamento a Roma, una
discreta autonomia a livello di produzione locale.
Il linguaggio risente dell'influenza
della cultura greca, in particolare attraverso le forme e i temi
iconografici affermatisi nei territori dell'Italia Meridionale, ma presenta caratteri
di originalità, soprattutto per la spontaneità espressiva, che non di rado
giunge ad esiti anticlassici. All'interno di questa produzione si può
distinguere da un lato un linguaggio colto e raffinato, vicino ai modi formali
e ai soggetti greco-ellenistici, da un lato una componente più popolare, molto
diffusa nelle regioni interne, in cui, a fronte di una sicura competenza
tecnica, le forme sono piuttosto sommarie ed essenziali.
La cultura
figurativa più ricca e originale è quella etrusca; tuttavia, la diffusione
capillare dei modelli locali, in particolare sarcofagi e urne cinerarie,
copiosamente prodotte dalle officine artigiane in tutto il territorio
centro-italico, rende in molti casi difficile distinguere l'area di origine.
D'altra parte, queste officine lavorano con modalità "seriale", sia
per la committenza etrusca, sia per quella romana o campana.
Un esempio
illustre di questa commistione linguistica è quella del cosiddetto Bruto
Capitolino (metà del III secolo a.C. Bronzo, altezza 69 cm, Roma, Musei
Capitolini). Realizzata in ambito laziale, l'opera presenta elementi di
tradizione greca, riconoscibili nella qualità esecutiva, uniti a caratteri
peculiari del linguaggio medio-italico, quali il realismo asciutto dei dati
somatici e la fiera severità dell'espressione. Pur non essendo direttamente
riferibile alla cultura figurativa etrusca o a quella romana, l'opera è
esemplare del ruolo ideologico assunto dall'arte nella Roma repubblicana, e
conferma la tendenza da parte della capitale ad acquisire modelli formali e
riferimenti iconografici da culture diverse, convergenti nel suo ambito di
influenza.
La statuaria etrusca si è distinta
fin dalle origini per la vitalità espressiva e per una incisiva tendenza
realistica. Dai canopi dei secoli VI-V a.C., in cui il volto del defunto è reso
con tratti sobri ed essenziali, alle teste sulle urne e sui sarcofagi, fino
alle bellissime teste-ritratti dei secoli III-II a.C., questa produzione ha
mostrato caratteri originali giungendo, in taluni casi, alla resa
espressionistica. Resta comunque costante lo sforzo di caratterizzare
individualmente i soggetti, nonostante una tendenza alla tipizzazione.
La predilezione per la terracotta e
il bronzo da parte degli scultori etruschi permette di comprendere la distanza
delle loro opere dal composto naturalismo della coeva statuaria greca: le forme
derivano dalla modellazione diretta della materia, la duttile argilla, sulla
quale l'artigiano imprime segni e solchi, spesso con la semplice pressione
delle mani. La nobiltà del materiale, la rifinitura e la levigatezza delle
superfici delle sculture classiche, al contrario, bastavano da sole a determinare
un'aura di distaccata bellezza. Nella
realizzazione delle figure fittili di defunti per le lastre di copertura dei
sarcofagi, le teste venivano realizzate a stampo, quindi caratterizzate
individualmente con l'aggiunta di elementi ornamentali e delle capigliature, e
attraverso essenziali indicazioni espressive.
Esemplare del percorso compiuto
dalla statuaria etrusca è la pregevole produzione in bronzo, tra cui emerge la statua
votiva di Aule Meteli, detta l'Arringatore del Trasimeno per
l'atteggiamento oratorio del soggetto. L'opera ben esprime l'ormai avvenuto
processo di integrazione tra linguaggi e tradizioni culturali diverse,
espressione di un mutato quadro storico; il naturalismo ellenistico si unisce
ad un modellato netto ed essenziale, segnato da linee incise che conferiscono
tensione e vivacità espressiva al gesto oratorio. Il ritratto veristico
romano, nel I secolo a.C., nascerà proprio dalla fusione delle due
tendenze fondamentali, quella di origine etrusco-italica, caratterizzata da
un linguaggio sobrio e lineare, e quella aulica e raffinata delle corti
ellenistiche.
LA RITRATTISTICA
ROMANA
ETA'
REPUBBLICANA
Il tipo del ritratto di Età
repubblicana si definì a partire dalla fine del II secolo a.C., e giunse a
piena maturazione all'inizio del secolo successivo. Sono gli anni del
consolidamento dell'aristocrazia senatoriale dopo il tentativo dei Gracchi,
violentemente represso, di introdurre riforme sociali; il patriziato legittima
il proprio ruolo politico affermando i valori morali di autorità e fermezza
tramandati dai padri fondatori dello Stato.
La fierezza spesso rude messa in
risalto nei ritratti da uno stile incisivamente realistico, mostra chiaramente
la distanza rispetto ai caratteri del ritratto ellenistico, in cui sia
l'anonimo cittadino sia il sovrano eroizzato erano trattati con una
raffinatezza al limite del virtuosismo, talvolta caricata di enfasi teatrale.
L'influenza ellenistica sulla ritrattistica successiva è comunque tale da
rendere difficile l'individuazione di precisi limiti cronologici nelle origini
del genere in ambito romano. Si consideri, peraltro, il diffuso utilizzo di
maestranze non locali, e segnatamente greche.
Opere come il Bruto Capitolino o
il Busto detto di Seneca (Napoli, Museo Archeologico Nazionale) mostrano come il tentativo di
circoscrivere forme e modelli entro precisi ambiti di appartenenza culturale
appaia, tra il III e il I secolo a.C., motivo di forzatura interpretativa.
Il culto domestico degli antenati, l'esaltazione della gens e della casta, sono ben espressi nella Statua Barberini, in cui un patrizio ammantato in un'ampia toga, regge nelle mani i busti di due suoi avi; l'appartenenza alla stessa famiglia è sottolineata dall'elevata somiglianza dei volti. Senza voler riaffermare l'esistenza di una separazione netta tra produzione colta e plebea, di origine medio-italica, va comunque sottolineato che la tradizione ellenistica e quella realistica si sarebbero distinte per molto tempo in due generi: il ritratto privato, affermatosi in particolare nell'ambito dell'aristocrazia senatoriale, e il ritratto ufficiale.
Il culto domestico degli antenati, l'esaltazione della gens e della casta, sono ben espressi nella Statua Barberini, in cui un patrizio ammantato in un'ampia toga, regge nelle mani i busti di due suoi avi; l'appartenenza alla stessa famiglia è sottolineata dall'elevata somiglianza dei volti. Senza voler riaffermare l'esistenza di una separazione netta tra produzione colta e plebea, di origine medio-italica, va comunque sottolineato che la tradizione ellenistica e quella realistica si sarebbero distinte per molto tempo in due generi: il ritratto privato, affermatosi in particolare nell'ambito dell'aristocrazia senatoriale, e il ritratto ufficiale.
Ritratto Torlonia |
Anche nel caso
del ritratto privato, comunque, l'effigie doveva sottolineare il ruolo civile
del soggetto, il suo essere parte della Res publica. Per questo motivo esso non
va considerato come la trasposizione in marmo del calco in cera realizzato sul
volto del defunto, ma come l'interpretazione in chiave didattica e
moraleggiante di un soggetto.
Nella produzione
ufficiale, invece, emerge con evidenza l'influsso ellenistico, in particolare
nell'attenzione posta alla componente intellettuale dei soggetti. Esemplare è
il ritratto di Pompeo Magno, in cui si fondono mirabilmente le
esigenze di verosimiglianza fisionomica e gli elementi di derivazione greca,
secondo un modulo stilistco che fungerà da matrice per la ritrattistica
ufficiale della prima Età imperiale.
ETA' IMPERALE
Quando Ottaviano ricevette dal
Senato il titolo di Augusto, nel 27 a.C., affiancò al programma di
consolidamento del proprio potere una politica culturale volta a celebrare la
pacificazione delle provincie dell'impero e a diffondere i princìpi su cui si basava
la solidità dello Stato. Questa funzione ideologica dell'arte si manifesta con
evidenza nei due principali generi scultorei romani, il rilievo storico e il
ritratto. Per quest'ultimo, in particolare, vennero definiti alcuni modelli,
rielaborati dal vasto repertorio della statuaria greca, utilizzato, spesso
senza coerenza stilistica, in base ai contenuti da esprimere.
L'immagine del Divo Augusto, d'altra
parte, divenne il simbolo stesso di Roma, modello immutato nel tempo, in quanto
espressione di valori assoluti. Le statue imperiali venivano replicate, anche
in materiali diversi e pregiatissimi (oltre al bronzo e al marmo, anche l'oro e
l'argento) e diffuse capillarmente in tutte le provincie; i modelli ufficiali, tanto quelli creati a Roma
che nelle aree periferiche dell'impero, venivano poi copiati e rielaborati,
dando origine a varianti. I principali esempi riguardano proprio le immagini
auliche dell'imperatore. In particolare, la statua di Augusto loricato
diverrà il prototipo delle rappresentazioni
degli imperatori in veste militare.
L'atteggiamento della figura
ripropone la ponderatio del Doriforo di Policleto, mentre il
braccio sollevato nell'allocuzione ai soldati deriva dall'Arringatore
etrusco. Il volto rivela fedeltà dei tratti somatici, ma anche elementi
idealizzati, che gli conferiscono un'astratta serenità ed una sicurezza regale.
Questi caratteri, però, ne determinano anche il distacco e la freddezza, quasi
didascalica, che ha contrassegnato la produzione ufficiale di Età augustea.
Il principe
indossa una corazza (lorica) riccamente decorata da bassorilievi sopra una
corta tunica militare; l’ampio mantello, il paludamentum, è avvolto attorno ai
fianchi e sostenuto dal braccio sinistro. Nella ponderazione chiastica del
corpo, nella torsione del capo e nelle belle proporzioni è evidente la quasi
pedissecua ispirazione, già lo si è detto, del pur ottimo artista al famoso
Doriforo di Policleto. Romano è però lo splendido ritratto fisionomico di
Augusto, dalla capigliatura a ciocche “fiammate” (il ciuffo di capelli sulla
fronte è detto anastolé) e dai tratti lievemente idealizzati, appena inaspriti
dal taglio metallico di alcuni passaggi, secondo il gusto classicistico
neoattico; romana è, soprattutto, la corazza, che imita sontuosi modelli da
parata e rappresenta un piccolo capolavoro di toreutica tradotto nel marmo.
In
alto, la quadriga del Sole corre,
preceduta da Aurora e Fosforo, nel Cielo personificato; al centro, fra le
personificazioni di due province
riportate all’ordine da Tiberio, la Germania e la Pannonia, è il re dei
Parti, Fraate IV, che restituisce a Tiberio, curiosamente accompagnato da un
cane, le insegne strappate dai Parti a Licinio Crasso nel 53 a.C., nella
battaglia di Carrhae (episodio che avvenne nel 20 a.C.); in basso è la personificazione
della Terra, affiancata dalle immagini di Apollo con la lira sul dorso di un
grifone e di Diana su quello di una cerva. In base a queste figurazioni si
può proporre una datazione della statua all’8 o 7 a.C., gli anni decisivi dell’ascesa
di Tiberio al ruolo di successore di Augusto. Le glorie militari del figlio di
Livia raffigurate sulla corazza del principe, peraltro a sua volta celebrato
con allusioni divine (il Sole sotto la volta del Cielo, Apollo sul grifone)
sembrano un implicito manifesto politico a favore della sua adozione. Non a
caso la statua venne realizzata per la villa di Livia, e fu ritrovata nel 1863.
Augusto viene raffigurato nel gesto di
chiedere il silenzio per rivolgere un discorso alle truppe, analogamente a quel
che si vede nella statua detta dell’Arringatore. Gli imperatori della
dinastia giulio-claudia (dal 37 al 54 si succedettero Tiberio, Caligola,
Claudio e Nerone) adottarono lo stile aulico introdotto da Augusto, codificato
sui princìpi espressi dall'arte greca all'apice del suo splendore.
Nel corso dell'Età
imperiale si affermarono, in particolare, alcuni modelli, diffusi in tutti i
territori dell'impero attraverso numerosissime copie: oltre alla statua
loricata, il nudo eroico, derivato dal bronzo ellenistico di Demetrio I, re di
Siria, il busto-ritratto e la statua equestre, sul prototipo
dell'Alessandro Magno a cavallo realizzato da Lisippo.
Le statue di
tipo eroico, come quelle raffiguranti Vespasiano e Tito, in ui il volto con le
fattezze reali è sovrapposto ad un corpo nudo idealizzato, sono esplicita
testimonianza della tendenza all'eclettismo da parte degli artisti romano, che
assumendo tipi derivati da culture figurative diverse per scopi politici, non
hanno saputo farne proprio il significato, snaturandolo.
Il
busto-ritratto rappresenta il genere più diffuso in Età imperiale, e trova
definizione, ancora, nei due tipi del ritratto ufficiale, derivato dal tipo del
Pompeo Magno, e di quello privato, ad uso familiare e funerario, segnato da una
realistica resa fisionomica. Tale distinzione è evidente per gli imperatori
della dinastia dei Flavi (Vespasiano, Tito e Domiziano, imperatori dal 69 al 96
d.C.), tanto che lo stesso soggetto poteva essere effigiato in modo
sensibilmente diverso in base alla destinazione dell'opera (i ritratti di Vespasiano ne sono un buon esempio).
Il ritratto
privato, anche di cittadini comuni, mostra di frequente una diretta derivazione
dai modelli diffusi nei ceti più elevati; questo legame è testimoniato dai
busti-ritratto posti nelle tombe di famiglie: una pratica diffusa tra i liberti
(schiavi liberi).
In Età
traianea si attenuò la distinzione tra ritratto ufficiale e ritratto
privato: la stessa immagine dell'imperatore era realistica e la sua grandezza
era espressa dalla nobile fermezza dell'immagine, dalla lealtà che essa
comunicava. Nel corso del II secolo si è avviato un processo di allontanamento
dal rigore veristico romano, che ha segnato, con fasi alterne, gli ultimi
secoli dell'impero.
Sotto il principato di Adriano, il richiamo
nostalgico ai valori del classicismo greco ha determinato un ritorno a immagini
idealizzate; diversamente dal classicismo augusteo, però, quello affermato da
Adriano si caricò di una partecipata intensità intellettuale, in immagini
tendenti ad una sublimata bellezza.
Per Marco Aurelio, la scelta
del linguaggio greco significò affermazione di valori morali ispirati al rigore
ed alla razionalità della filosofia stoica. Il naturalismo e la coerenza
formale accettata da tutti gli imperatori come garanzia di sovranità, lasciò
progressivamente il posto a soluzioni formali orientate ad una maggiore
accentuazione espressionistica e sostenute da una lavorazione del marmo
incisiva e contrastata; questa tendenza è chiaramente riscontrabile nei rilievi
storici, ma anche, pur se in misura minore, nei ritratti.
Dalla seconda metà del II secolo, a
partire dal principato di Commodo,
succeduto a Marco Aurelio, la produzione artistica divenne chiara
testimone della crisi della società romana, percorsa da correnti religiose di
origine orientale ispirate ad un misticismo ormai lontano dalla razionalità
della cultura greca. Il linguaggio figurativo mescola in questi anni elementi
ereditati dalla precedente iconografia con altri che denotano l'insorgere di
tendenze visionarie o misticheggianti, dichiarando la disgregazione, ormai in
atto, dell'equilibrio classico. I
ritratti del'imperatore mostrano una lavorazione accurata del marmo, tale da
realizzare effetti di straniamento e di distacco del soggetto dalla realtà. Il
volto presenta superfici levigate e prive di segni caratterizzanti, al punto
che gli stessi occhi, più che modellati, sono tracciati con linee incise; la
barba e soprattutto i capelli sono, invece, fittamente lavorati, esaltando per
contrasto la morbidezza chiaroscurale dell'incarnato. Questa sorta di sublimazione dell'immagine
del princeps contrasta con la memoria che di Commodo la storia ci ha
lasciato, cioè quella di un sovrano che ha esercitato un potere assoluto, tra
corruzione e terrore, in una pretesa di onnipotenza.
Nel corso del III secolo si
affermarono gli elementi della cosiddetta arte tardoantica, lunga fase
di transizione tra mondo antico e Alto Medioevo. Prende avvio il processo di
disgregazione dell'impero, minacciato ai confini dalle popolazioni barbariche e
all'interno dal disordine e dalla miseria di sempre più ampi strati di
popolazione. Roma perde il proprio ruolo di centralità, tanto che gli stessi
imperatori, spesso proclamati con il sostegno dell'esercito contro gli
interessi del Senato, non appartenevano più alle dinastie patrizie.
Il questo contesto di instabilità politica, allo sgretolamento dei confini
corrisponde l'intensificarsi di fermenti sociali e la ricerca di nuove forme di
spiritualità: valga, come esempio, la grande diffusione del culto orientale di
Mitra o del Cristianesimo.
La concezione classica dell'arte,
che per secoli aveva sostenuto l'immagine ufficiale del potere, entrò
definitivamente in crisi, e con essa il naturalismo, l'equilibrio formale e la
vitalità che ne erano stati i caratteri costanti. Le forme con cui si era
espressa la razionalità della statuaria ellenistica non possono esprimere
l'instabilità e le tensioni irrazionali che percorrono il mondo romano, e lasciano
il posto a linguaggi che testimoniano la perdita di certezze e la ricerca di
nuovi valori religiosi o il fascino suscitato da nuove correnti di pensiero. Il
ritratto imperiale, tuttavia, trova un momento di rinnovata fortuna all'inizio
del II secolo, con la dinastia dei Severi;
nei ritratti di Caracalla,
in particolare, si evidenzia la volontà di tornare ad un realismo incisivo, in
cui la fermezza del potere diviene assolutismo e paurosa minaccia.
Le tenenze anticlassiche, proprie dell'arte alla fine del III secolo, si
affermarono in modo definitivo nel corso del IV secolo, e segneranno i
caratteri del ritratto fino alla fine dell'impero.
Le effigi
imperiali, in quanto espressione della concezione del potere, mostrano con
efficacia i cambiamenti storici in atto, e l'immagine del principe, un tempo
primus inter pares, diviene quella di un sovrano dall'illimitato potere.
Se già
a partire da Tito la persona dell'imperatore veniva divinizzata dopo la morte,
Eliogabalo introdusse riti di adorazione della figura imperiale.
La nuova
accezione del potere venne diffusa attraverso un'immagine innaturalmente
astratta, composta da forme semplificate e massicce, in cui i tratti somatici,
la capigliatura e le sopracciglia sono spesso affidati a linee incise che
percorrono superfici regolari e squadrate. La dimensione di distaccata e
inarrivabile sacralità è affidata in primo luogo agli occhi, innaturalmente
grandi, allo sguardo intenso e lontano. Questa idealizzazione del soggetto si
unisce alla forza espressiva data proprio dall'intensità dello sguardo e dalla
fermezza dei tratti.
Il superamento
del ritratto fisionomico determinò l'introduzione di tipi convenzionali, spesso
non riferibili con certezza ad un personaggio.
H.Fussli, l'artista sgomento di fronte alla grandezza delle rovine antiche, Milano, Civiche raccolte Bertarelli, 1778-80.
La connotazione simbolica
dell'immagine imperiale trovò esito emblematico nella Statua colossale di
Costantino, un tempo posta nell'abside della Basilica
di Massenzio. Le straordinarie dimensioni della statua, la rigida frontalità
del volto e la fissità ieratica dello sguardo traducono l'immagine in una sorta
di apparizione. E' con Costantino, d'altra parte, che viene introdotta l'idea
del princeps non come divinità ma come diretta emanazione e tramite, sua
immagine tangibile. Nell'immobilità della raffigurazione gli elementi di verosimiglianza
vengono irrigiditi e trasfigurati; la calotta della chioma, fittamente incisa,
e i tratti resi con nitidi intagli testimoniano il solco ormai tracciato. Va peraltro considerato come nella trasformazione del ritratto
imperiale abbia svolto un importante ruolo la diffusione dei linguaggi
provinciali e dell'arte plebea, ormai prevalenti anche negli edifici onorari,
di cui esemplare è l'Arco di Costantino, a Roma.
Sul lato sud della Basilica di San Marco a Venezia è collocato un celebre gruppo scultoreo formato dall'assemblaggio di due elementi e databile, a seconda che lo si voglia ritenere di provenienza romana o costantinopolitana, intorno al 300, all'epoca della prima tetrarchia, oppure al primo quarto del IV secolo, all'epoca della seconda. Vi sono rappresentati, su due lati, i due Augusti e i due Cesari in simmetrico abbraccio, a propagandare l'immagine della concordia degli imperatori, nelle difficoltà (e nei contrasti) della suddivisione del governo imperiale. Le figure sono rigidi manichini identicamente abbigliati, a malapena distinti da qualche diversità nei tratti del viso, bloccati in una posa destinata al pubblico. I volti e gli sguardi sono fissi e inespressivi, resi con durezza, come le innaturali pieghe dei panneggi: si potrebbe pensare all'opera di un artista di scarso valore, se non fosse per due fondamentali fattori. Osserviamo il dettaglio delle impugnature delle spade: secondo una moda di provenienza barbarica recepita nel mondo provinciale romano, sono sagomate a testa di rapace e sicuramente riproducono modelli reali in metallo prezioso e, forse, niellate, o incrostate con pietre dure, avorio, paste vitree o smalti policromi. Tanta finezza di dettagli comprova che l'anticlassicismo dell'autore dei Tetrarchi fu una scelta intenzionale, così come intenzionale, e altamente simbolica, fu l'adozione di un materiale scultoreo durissimo e pregiato, il porfido rosso, proveniente dalle cave di proprietà imperiale situate in Egitto, dal colore tanto simile alla porpora delle vesti regali e per questo ritenuto adatto a rappresentare la maestà di domini et dei. Siamo di fronte a un'opera rivoluzionaria: una sovrana indifferenza per l'estetica classica regna in questo linguaggio della crisi; ciò che conta è, a costo della rottura di ogni residuo equilibrio, tradurre energicamente il concetto (la concordia) in un simbolo (l'abbraccio fra i tetrarchi) in funzione politica propagandistica. Quella che percepiamo come durezza e forte semplificazione formale è il risultato ancora di una intenzionale scelta estetica finalizzata a creare un'immagine di lineare, immediato e poderoso impatto visivo e concettuale sui destinatari (i sudditi dell'impero).
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