Vincenzo Foppa, Fanciullo che legge Cicerone, affresco, 101,6 x 143,7 cm, Londra, Wallace Collection. Mi pare corretto fare precedere un sia pur breve percorso sul ritratto d’amicizia con l’immagine di un affresco, opera del pittore lombardo Vincenzo Foppa. Staccato dall’edificio che aveva la funzione di Banco Mediceo, a Milano, fu realizzato intorno al 1464. Il dipinto è emblematico del recupero dell’antichità classica attuato nel corso del XV, e in origine faceva parte di ciclo dedicato alla storia romana descritto dall’architetto Antonio Averlino detto il Filarete nel suo Trattato di architettura. Raffigura infatti un giovane ragazzo intento a leggere e, a giudicare dall’iscrizione alle sue spalle, si tratterebbe di Cicerone, la cui passione per la lettura fin dalla tenera età è celebrata da Plutarco nelle Vite parallele. Ecco dunque al perché del coinvolgimento di un’immagine tanto lontana dall’argomento qui trattato: il contributo di Cicerone all’elaborazione del pensiero sull’amicizia in età rinascimentale e poi barocca fu fondamentale. Il suo “De amicitia” sottolinea come quel tipo particolare di rapporto possa definirsi tale soltanto “quando il carattere si è formato e l’età è matura”. Coerente con le implicazioni più profonde di questa visione è l’immagine che scaturisce da alcuni ritratti eseguiti da Raffaello. La straordinaria intensità di alcune effigi di poeti ed umanisti rivela la loro intensa amicizia con l’artista.
Al pennello di un Raffaello trentatreenne data il disperso Ritratto di Antonio Tebaldeo, noto attraverso una riproduzione fotografica, di una tale somiglianza da risultare a Pietro Bembo “tanto naturale che egli non è tanto simile a se stesso quanto gli è quella pittura. Et io per me non vidi mai sembianza veruna più propria”. L’efficacia rappresentativa, messa in luce anche da una tavolozza quanto mai sobria e povera di colori costosi e appariscenti, è ottenuta anche grazie ad un’istintiva capacità di introspezione psicologica, che va oltre l’esteriorità del modello.
Il Doppio ritratto di Andrea Navagero e Agostino Beazzano conservato alla Galleria Doria Pamphilj di Roma, fu realizzato poco prima della partenza del Navagero per Venezia, dove avrebbe ricoperto la carica di bibliotecario della Rapubblica. L’opera appartenne a Pietro Bembo, il quale in una lettera al cardinal Bibbiena datata 3 aprile 1516 annuncia l’escursione che il gruppo di amici (Navagero, Beazzano, Bembo stesso, e Castiglione) stavano per intraprendere alla Villa Adriana di Tivoli. Ad organizzarla era ancora una volta Raffaello che, non più tardi dell’anno prima, era stato nominato soprintendente alle antichità romane da papa Leone X. Nel dipinto oggi alla galleria Doria Pamphilj, il legame intellettuale ed affettivo è suggerito dalla prossimità dei due letterati, sia tra loro sia con lo spettatore divenuto interprete di una osservazione partecipata e interlocutoria. Il principale spettatore era forse il Bembo, che intorno al 1530 possedeva la tela nella sua casa padovana.
Capolavoro della tarda attività del Sanzio è il Ritratto di Baldassarre Castiglione, del Musée du Louvre di Parigi. L’autore del Cortegiano appare seduto, e l’altezza degli occhi coincide con il punto di vista stabilito dal pittore. La forte intimità suggerita dal taglio e della prossimità ai margini del supporto, sembrano cogliere il Castiglione in una pausa di silenzio durante una conversazione. Quando nel 1516 il Castiglione lasciò Roma per ritirarsi a Mantova in conseguenza della crisi politica tra Leone X e il duca d’Urbino di cui era ambasciatore, portò con sé il ritratto considerandolo tra gli oggetti più preziosi. In qualità di ambasciatore di Federico Gonzaga presso la corte papale, tre anni dopo tornò a Roma. A Mantova lasciò Camillo, il figlio primogenito avuto con Ippolita Torello, sposata nel 1517. La lontananza dalla famiglia ispirò al Castiglione una elegia latina, scritta come se fosse stata a lui indirizzata dalla moglie. In alcuni versi il riferimento al dipinto di Raffaello appare esplicito: Sola tuos vulnus referenz Raphaelis imago/ Picta manu, curas allevat usque meas./ Huic ego delicias facio, arrideoque iocorque,/ Alloquor, et tamquam reddere verba queat/ Assensu nutuque, mihi saepe illa videtur/Dicere velle aliquid, et sua verba loqui./ Agnoscit, balboque patrem puer ore salutat,/ Hoc solor, longos decipioque dies. (Solo l’immagine di Raffaello riportando i tuoi lineamenti/ nel dipinto, allevia le mie preoccupazioni./ A questa rivolgo sguardi affettuosi, le sorrido e scherzo/ le parlo, e come se potesse rispondermi/ con il cenno del capo, spesso mi sembra che quella / voglia dire qualcosa, e parli con le tue parole./ Il bimbo riconosce il padre e lo saluta con il suo balbettio infantile,/ ciò mi è di conforto e abbrevia i lunghi giorni”.) Gli accordi cromatici sono di grande raffinatezza: la camicia bianca dialoga con una sinfonia di accordi di grigio, di nero, di ocra, di tortora, su cui spiccano l’incarnato rosato e gli occhi, di penetrante intensità.
Nel Ritratto di due amici della Fondazione Cini di Venezia (88, 68 cm), del 1522, il fiorentino Pontormo mette in luce la sua personalissima rilettura del naturalismo sartesco, introducendo elementi derivati dalla lucida e talvolta spietata “realtà” düreriana.
Non ci sono prove che Michelangelo Buonarroti dipinse ritratti, a differenza del suo primo maestro Domenico Ghirlandaio che a quel genere si dedicò molto, sia su tavola che ad affresco. Tuttavia, vi è un disegno al British Museum nel quale un rapporto di particolare affetto nei confronti del soggetto ha condotto il Buonarroti a tracciare su di un foglio il volto di un giovane, quell'Andrea Quaratesi, fiorentino, che per qualche tempo gli fu allievo. Nel sito del British Museum si legge According to Giorgio Vasari, one of Michelangelo's biographers, he was most reluctant to make portrait drawings 'unless the subject was one of perfect beauty'. This is the only surviving portrait drawing by Michelangelo. Drawn in black chalk, it shows the head and shoulders of a young man, Andrea Quaratesi (1512-85) who was one of several noble youths much admired by Michelangelo. Though from a noble Florentine family, it is possible that Michelangelo tried to teach this young Florentine how to draw, as the artist wrote on a drawing now in Oxford: 'Andrea, have patience'. The young man wears contemporary dress, a cap flat on his head, as he looks out to his left. The drawing is lit from the left so that the delicate shadows are formed by small, careful parallel strokes of chalk.
http://www.britishmuseum.org/explore/highlights/highlight_image.aspx?image=ps166366.jpg&retpage=21657 Il genere del ritratto veniva dunque praticato di rado dal grande artista, e sempre "per amore e mai per obrigo", come egli stesso dichiarò.
Non diversamente da quello che fu per il più autorevole allievo di Michelangelo, Daniele Ricciarelli detto Daniele da Volterra, più volte indicato col titolo di "braghettone" per essere intervenuto sul Giudizio Universale della Sistina al fine di emendare le nudità ritenute più sconvenienti. Nel celebre disegno conservato al Teylers Museum di Haarlem, Daniele da Volterra traccia il volto di un uomo dall'espressione malinconica, inequivocabilmente identificabile con quello di Michelangelo. "Dopo aver preso da vivo e fermato sulla carta l’espressione grave e malinconica dell’ormai anziano maestro, Daniele procede ad una messa a fuoco puntuale del ritratto che dovrà poi trasferire, mediante la tecnica dello spolvero, su di un cartone definitivo; in questa fase quel che gli interessa è riuscire a restituire attraverso il mezzo grafico la struggente umanità di quel volto: la piega amara della bocca, quegli «occhi di biffa macinati e pesti », come lo stesso Michelangelo ebbe a dire di sé in un passaggio memorabile delle Rime che risale più o meno a questi stessi anni (267)". Il disegno venne poi impiegato come modello per il volto dell’apostolo a destra della Assunzione della Vergine che Daniele da Volterra eseguì per la cappella della Rovere nella chiesa di Trinità dei Monti, a Roma. (si veda la scheda curata da I. Di Majo in Daniele da Volterra, amico di Michelangelo, catalogo della mostra a cura di V. Romani, Firenze, Casa Buonarroti, 30 settembre 2003 – 12 gennaio 2004, pp. 110-112)
Il confronto con la scultura in bronzo oggi all'Ashmolean Museum di Oxford, opera sempre del Ricciarelli, non lascia dubbi sull'identità del volto del disegno.Benché la testa bronzea di Oxoford venne commissionata dal nipote di Michelangelo, Leonardo Buonarroti, nell’anno stesso della scomparsa del grande artista (il 1564) e non per su iniziativa personale del Ricciarelli, è chiaro che solo quest’ultimo poteva fissare per sempre i tratti dell’amico e maestro con immediatezza d’espressione e trasporto affettivo.
Il Busto di Orazio Piatesi, conservato nella chiesa
fiorentina dei Santi Michele e Gaetano fu realizzato su iniziativa dello stesso
Daniele da Volterra. Delle vicende personali che stanno all’origine dell’opera dà
conto il ben informato Giorgio Vasari “Avendo Daniello menato [leggi: condotto] in sua
compagnia, quando a principio venne da Roma a Fiorenza, un suo giovane chiamato
Orazio Pianetti [sic!], virtuoso e molto gentile, qualunche di ciò si fusse la
cagione, non fù sì tosto arrivato a Fiorenza, che si morì. Di che sentendo
infinita noia e dispiacere Daniello, come quegli che molto per le sue virtù
amava il giovane, e non potendo altrimenti verso di lui il suo buono animo
mostrare, tornato quest’ultima volta a Fiorenza, fece la testa di lui di marmo
dal petto in su, ritraendola ottimamente da una formata in sul morto; e quella
finita, la pose con un epitaffio nella chiesa di San Michele. Nel che si mostrò Daniello, con questo
veramente amorevole uffizio, uomo di rara bontà et altrimenti amico agl’amici
di quello che oggi si costuma comunemente, pochissimi ritrovandosi che nell’amicizia
altra cosa amino che l’utile e commodo proprio” (Vasari, ed. 1568, p. 546-547). (si veda la scheda curata da A. Cecchi in Daniele da Volterra..., cit, pp. 156-157)
Bartolomeo Passerotti, Doppio ritratto, olio su tela, cm 73 x 59, Roma, Pinacoteca Capitolina, inv. 70
Eseguito dall’artista bolognese nella seconda metà del Cinquecento, il dipinto proviene dalla raccolta Sacchetti e ritrae due personaggi – il giovane suonatore di cornetto che si volge allo spettatore e l’uomo più anziano, assorto nei suoi pensieri- posto uno di fronte all’altro. Il contrasto delle loro età e degli atteggiamenti conferisce alla composizione un effetto dinamico e narrativo. L’immagine rientra nella tipologia ritrattistica, di origine umanistica, classificata come “quadro di amicizia” (Freunschaftsbild): un doppio ritratto in cui sono raffigurati due amici con gli attributi dei oro comuni interessi. Cézanne ne trasse un disegno, ora a Basilea.
Nel XVII secolo il ritratto d’amicizia può ben essere esemplificato da un’opera di Peter Paul Rubens conservato a Firenze, a Palazzo Pitti. Justus Lipsius e i suoi amici è il titolo che assume il dipinto dopo la scomparsa del fratello dell’artista il 28 agosto 1611. Entrambi erano allievi dello stusioso e filosofo neostoico Lipsius (1547-1606). Il pittore compare in piedi, dietro ai tre personaggi seduti. Seduti, da sinistra a destra , sono Philipp Rubens, Julius Lipsius e Jan Woverius. Ai piedi è un cane mentre nella nicchia sul muro si trova un busto di Seneca. Lo sfondo paesaggistico apre su di una veduta romana. Nella complessa regia della scena, che sembra alludere ad una lezione filosofica, compare anche un vaso con quattro tulipani, due aperti e due chiusi: «There is no doubt that these are meant to symbolize the four friends – the two full blown referring to the two dead friends, Lipsius and Philipp Rubens, and the two in bud to the living, Peter Paul Rubens and Woverius» (M. Morford, Stoics and Neostoics. Rubens and the Circle of Lipsius, Princeton, 1991, p. 11)
Per il Settecento possiamo attingere dalla ricca prroduzione ritrattistica inglese, in particolare volgendo lo sguardo su di un’opera di Sir Joshua Reynolds raffigurante Il colonnello Acland e Lord Sydney, dipinto che reca anche il significativo titolo di “Gli arceri”. Grande tela conservata oggi in collezione privata (236 x 180 cm), venne dipinta nel 1769. Tom Taylor, biografo vittoriano di Reynolds scrisse nel 1865 che Acland e Sydney erano ottimi amici, e che avevano compiuto insieme il Grand Tour fino a voler suggellare tale amicizia commissionando a Reynolds il dipinto in questione. Tuttavia I due avevano litigato ancor prima che il dipinto fosse terminato, rifiutandosi di pagarlo. In tal modo l’opera venne acquistata dal conte di Carnavon. Pare che I fatti raccontati dal biografo non siano del tutto corretti. Poco si sa del rapporto tra I due uomini, ma è stato appurato che non fecero insieme il Grand Tour (pare addirittura che Sydney non lo compì affatto, e che morì suicida nel 1774). E’ comunque un quadro intrigante, e tra I due giovani ritratti dovette sicuramente esservi un forte legame di amicizia.
Friedrich Overbeck, Ritratto di Franz Pforr, 1810 circa, olio su tela, 62 x 47 cm, Berlino, Staatliche Museen Preußischer Kulturbesits, Nationalgalerie. Il ritratto è descritto dallo stesso Overbeck in una lettera indirizzata da Roma a Joseph Sutter a Vienna, anch’egli facente parte della confraternita di San Luca: «[Pforr] indossa un abito in stile tradizionale tedesco ed è in piedi davanti a una finestra gotica aperta, incorniciata da una decorazione in pietra e circondata da una vite. Si vede l’interno di una camera, presso la cui parete di fronte siede una giovane donna (probabilmente la sua), che lavora a maglia e intanto legge un libro religioso…dietro si scorge una città gotica e più in là il mare. Il tutto deve presentarlo in una situazione in cui forse si sentirebbe assolutamente felice». Overbeck aveva dunque appena terminato l’abbozzo su tela e la composizione generale. Due anni più tardi però Pforr, malato di tubercolosi polmonare, morì ad Abano, nei pressi di Roma. Il dipinto, iniziato nel 1810, verrà terminato soltanto nel 1865.
Per contraccambiare il quadro Pforr aveva a sua volta sancito la stretta amicizia con Overbeck dipingendo Sulamith e Maria, un dittico oggi in collezione privata (1811, olio su tavola, 34,5 x 32 cm). Sulamith, la sposa predestinata, ha i capelli neri e l’abito colorato di bianco, rosso e verde. Maria invece, considerata nordica, veste un abito rosso chiaro e un grembiule bianco. Sulamith – il nome è derivato dalla quello della donna amata da Salomone nella Bibbia – è «destinata a Overbeck, che ama l’arte italiana dell’epoca di Raffaello, mentre Maria rappresenta l’amore di Pforr per l’arte primitiva tedesca. Dopo questa prima stesura letteraria, ed è fin troppo facile pensare all’ut pictura poesis», i due amici «intendono eseguire separatamente di due dipinti, e già una settimana più tardi Overbeck annota nel suo diario: “Belle ore passate con Pforr davanti al cartone con Sulamith e Maria”. L’11 ottobre, da Napoli, Pforr scrive a Overbeck: “[…] da quanto tempo non mi siedo con te davanti alle immagini delle nostre prescelte spose, Sulamith e Maria: i loro dolci nomi anche qui mi confortano, quando insopportabili situazioni mi trascinano nella grettezza della nostra epoca. A Castel a mare ho conosciuto una nobile donna che nei modi e nelle parole mi ricorda la mia Maria”. Allegato alla lettera è il Piano per il quadro Sulamith e Maria, in cui Pforr precisa come eseguirà il proprio dipinto, un dittico, alludendo principalmente agli studi che aveva elaborato, insieme con l’amico, sulla teoria del colore. […] Sulamith è seduta su una panchina all’interno di un hortus conclusus e ha dietro di sé il paesaggio italiano rinascimentale tanto caro a Overbeck. Maria è seduta in una piccola stanza nordica, simile allo studio di un San Girolamo; dalla finestra entrano i raggi di sole ad illuminare il letto, “che deve essere secondo la maniera antica, molto pesante di legno scuro e con un gradino per salirvi”.
Alla morte di Pforr, nel giugno 1812, Overbeck aveva lasciato incompiuto il dipinto Sulamith e Maria(interpretato in seguito come un abbraccio tra due donne, Italia e Germania, oggi a Monaco, Neue Pinakothek), suggello del rapporto di amicizia tra i due pittori. Soltanto nel 1828, per l’insistenza del mercante d’arte Wenner, di Francoforte, Overbeck portò a termine l’opera […]. Alle spalle dell’Italia si apre un paesaggio scarno: un eremo, le montagne, il fiume; alle spalle della Germania una città gotica tedesca. La figura della Germania si protende verso quella dell’Italia».Lo stretto rapporto che legava la comunità di artisti tedeschi a Roma (riunita nel convento di Sant’Isidoro abbandonato dopo le soppressioni napoleoniche) nella Confraternita di San Luca è espresso attraverso questi dipinti. Segni di appartenenza ad un comune ideale estetico che è anche ideale di vita, sognando il recupero di un medioevo ideale, in cui gli artisti erano liberati dai vincoli delle accademie e il linguaggio tornava ad essere semplificato, chiaro, spiritualizzato.
Il ritratto d’amicizia si afferma come genere proprio all’interno di quella cerchia di artisti. Ne è ulteriore prova il Ritratto di Wilhelm von Schadow con il fratello Rudolph e Bertel Thorvaldsen, dipinto nel 1815-16 a Roma, dove Schadow era arrivato nel 1811. Oltre a fargli conoscere la realtà artistica romana, il soggiorno italiano condusse alla conversione al cattolicesimo l’artista. Nel ritratto le mani sono l’elemento unificante, ponendosi in mutuo rapporto: Thorvaldsen è al centro, e tiene nella mano destra la stecca, che è strumento della sua professione; dietro è la Donna che si allaccia i sandali di Rudolph von Shadow (1786 – 1822), un’opera che diede fama al giovane artista, morto prematuramente. La stretta di mano tra i due fratelli, uno scultore e l’altro pittore, viene posta sotto l’ideale tutela del venerato maestro Thorvaldsen.
Hans von Marées (1837-1887), artista tedesco romanizzato, dipinse un autoritratto in compagnia di Franz von Lenbach, anch'egli pittore. Van Marées, collocato in primo piano con cappello, barba e occhiali, occulta in parte le fattezze dell'amico, che guarda l'osservatore con un sorriso ambiguo. Marées dipinse svariati autoritratti, che indicano una costante ricerca di sè, motivata anche dalla misantropia e dai difficili rapporti con gli altri. Dall'abbandono dell'Accademia di Berlino alla rottura con Carl Steffek, che cacciò il giovane artista dal suo studio. Insieme ad Hildebrand, col quale intratteva un rapporto intimo, affrescò la Stazione zoologica di Napoli, ma la loro relazione si infranse ben presto. Evitava di eseguire ritratti su commissione, preferendo ritrarre le persone che gli erano care. Nel dipinto qui proposto, conservato A Monaco di Baviera (Bayerische Staatsgemaldesammlungen, Neue Pinakotek, 1863, olio su tela, 54,3 x 62 cm), la stesura pittorica appare densa e stratificata, mettendo in luce un esercizio difficile e tutt'altro che spontaneo, alla faticosa ricerca di una formula che lo soddisfacesse.
Silvestro Lega (Modigliana, Forlì, 1826 – Firenze, 1895), Ritratto di Isolina Cecchini, 1869, olio su tela, 24,2 x 18,4 cm, Collezione privata. La ragazza ritratta è Isolina Cecchini, allieva di pittura e di pianoforte rispettivamente dello stesso Silvestro Lega e di Virginia Batelli, l’amata dal pittore. Il piccolo dipinto si caratterizza per una inquadratura fortemente ravvicinata, in modo da rivelare ancora di più l’intesa spirituale e la cordialità di sentimenti che legavano Isolina a Silvestro Lega. Il «senso di familiarità, di tenerezza affettuosa, fondate sulla consuetudine quotidiana, che si doveva respirare nelle stanze del villino Batelli, si riflette nel bel volto della ragazza appena ventenne, che con serena fiducia posa lo sguardo sul pittore che la sta ritraendo».
Paul Gauguin, Autoritratto con ritratto di Émile Bernard (Les Miserables), 1888, olio su tela, 45 x 55 cm, Amsterdam, Van Gogh Museum.
Émile Bernard, Autoritratto con ritratto di Gauguin, 1888, olio su tela, 46 x 55 cm, Amsterdam, Van Gogh Museum.
Charles Laval, Autoritratto, 1888, olio su tela, 50 x 60 cm, Amsterdam, Van Gogh Museum. Il 1888 è un anno che segna una singolare serie di ritratti finalizzati a suggellare intense ancorché brevi amicizie. Per la verità si tratta di autoritratti, inviati da Pont-Aven, in Bretagna, ad Arles. A desiderarli era stato Vincent van Gogh, che nel 1887 aveva lasciato Parigi intenzionato a fondare una comunità di artisti nel Sud della Francia, che avrebbero vissuto e lavorato assieme sotto il caldo sole mediterraneo. In lettera dell’ottobre 1888 all’artista olandese, Gauguin annuncia che sia lui che Émile Bernard avevano esaudito il desiderio dell’amico e le tele erano terminate. In seguito arriverà ad Arles anche un terzo autoritratto, eseguito da Charles Laval, e che Van Gogh giudica «bello ed ardito». La casa gialla, il buen retiro dell’artista, doveva dunque essere ornato dai volti degli amici pittori. Quando Van Gogh vide l’autoritratto di Gauguin restò piuttosto sconcertato, nonostante fosse stato accompagnato da una lettera che aveva il valore di una nota esplicativa: «Porto la maschera del bandito mal vestito e forte come Jean Valjean che ha una sua nobiltà e dolcezza d’animo. Il sangue ardente inonda il viso e i colori del fuoco di fornace che cntornano gli occhi rivelano la lava che ribolle nel nostro animo di pittore. Il disegno degli occhi e del naso simile ai fiori di un tappeto persiano riassume l’idea di un’arte simbolica e astratta. Lo sfondo fanciullesco e femminile con i fiori infantili è lì per attestare la nostra verginità artistica. E questo Jean Valjeab che la società opprime e mette fuori leggem col suo amore e la sua forza, non è forse anche l’immagine del moderno impressionista? E poiché gli ho dato i miei lineamenti, lei ha sia la mia effige personale sia il ritratto di tutti noi, povere vittime della società che ci vendichiamo facendo del bene».
Lo stesso Van Gogh eseguirà svariati ritratti di amici. Gente comune, oppure artisti, come Eugène Bloch (Parigi, Musée d’Orsay), conosciuto a metà giugno 1888 e dal quale restò profondamente affascinato . Scrive Van Gogh al fratello Theo: «Ieri ho ancora passato la giornata con quel belga […]. Ebbene, grazie a lui ho finalmente un primo schizzo di quel quadro che sogno da tanto tempo, - il poeta. Ha posato lui. La sua testa fine dallo sguardo verde si stacca nel ritratto che ho fatto, su un cielo stellato oltremare profondo. È vestito di una piccola casacca gialla, un colletto di tela grezza, una cravatta variegata […] Ah, fratello caro, talvolta so così bene ciò che voglio. Nella vita e nella pittura posso bene fare a meno del buon vino, ma non posso, io che soffro, fare a meno di qualcosa di più grande di me, che è la mia vita, la potenza creativa. […] E quando si è frustrati nella potenza fisica, si cerca di dar vita ai pensieri al posto dei figli, e si partecipa così dellìumanità. E con un quadro come questo vorrei poter esprimere qualcosa di commovente come una musica. Vorrei poter dipingere uomini e donne con un non so che di eterno, di cui una volta ne era simbolo l’aureola, e che noi cerchiamo di rendere con lo stesso raggiare, con la vibrazione dei colori.» Continua affermando di voler «fare il ritratto di un amico artista, che sogna i grandi sogni, che lavora come l’usignolo canta, perché è questa la sua natura. Quest’uomo dovrebbe essere biondo. E vorrei mettere nel quadro la stima e l’amore che ho per lui. Lo ritrarrei dunque così come è, più fedelmente possibile, per cominciare. Ma il quadro non sarebbe terminato così. Per finirlo farò il colorista arbitrario. Esagererò il biondo dei capelli, arrivando ai toni di arancione, ai gialli cromo, al limone pallido. Dietro la testa, invece di dipingere il muro banale del misero appartamento, dipingerò l’infinito, farò uno sfondo semplice del blu più ricco, più intenso che riuscirò ad ottenere; da questa semplice combinazione, la testa bionda, illuminata su questo sfondo blu sontuoso, rende un effetto misterioso come di stella nell’azzurro profondo.» Bibliografia e Sitografia: Vincenzo Foppa, a cura di G. Agresti, M. Natale, G. Romano, catalogo della mostra Brescia, Santa Giulia – Museo della Città, marzo – giugno 2002, Milano, Skira, 2002, p. 103. M.T. Cicerone, La vecchiaia. L’amicizia (a cura di N. Marini), Milano, Garzanti, 1998, p. 111 (XX, 74). Per il Ritratto del Tebaldeo: http://fe.fondazionezeri.unibo.it/foto/80000/73600/73445.jpg Per il Doppio ritratto della Doria Pamphilj: http://it.wikipedia.org/wiki/File:Double_Raphael.jpg Per il ritratto di Isolina Cecchini: http://www.alinariarchives.it/internal/?photocode=ACA-F-064497-0000&languageID=it&ref=cultura e la scheda di S. Bietoletti nel catalogo della mostra Silvestro Lega, i Macchiaioli e il Quattrocento, a cura di G. Matteucci, Fernando Mazzocca, A. Paolucci, Forlì, Musei di San Domenico, gennaio – giugno 2007,Cinisello Balsamo/MI, Silvana Editoriale, 2007, pp. 282-283. C. Foppa Pedretti, Essere amici. Percorsi di educazione, Milano, Vita & Pensiero, 2002, p. 78-79 R. Brandt, Filosofia nella pittura. Da Giorgione a Magritte, Paravia Bruno Mondadori, 2003, p. 228 sgg. (per Rubens) F. Mazzocca, Francesco Hayez, Andrea Maffei e il fascino esercitato da Milano nella scena artistica trentina dell’Ottocento, in Il Secolo dell’Impero. Principi, artisti e borghesi tra 1815 e 1915, catalogo della mostra a cura di G. Belli e A. Taddia, Rovereto, Mart, giugno – ottobre 2004, Milano, Skira, 2004, pp. 27-41, in part. pp. 38-39. Joshua Reynolds e l’invenzione della celebrità, scheda curata da M. Postle e M. Hallet, catalogo della mostra Ferrara, Palazzo dei Diamanti, 2005, pp. 206 – 207.