L'entusiasmo della scoperta
Il 14 gennaio 1506 un eccezionale ritrovamento fece
eco su tutta Roma. La notizia giunse anche nel palazzo vaticano, dove «... fu detto al Papa, che in una vigna presso
a S. Maria Maggiore s' era trovato certe statue molto belle. Il Papa comandò a
un palafreniere: va, e dì a Giuliano da Sangallo, che subito li vada a vedere.
E così subito s' andò. (...) E perché Michelangelo Bonarroti si trovava
continuamente in casa, che mio padre l' aveva fatto venire, e gli aveva
allogata la sepoltura del Papa; volle, che ancor lui andasse; ed io così in
groppa a mio padre, e andammo. Scesi dove erano le statue: subito mio padre
disse: questo è il Laocoonte di cui fa menzione Plinio. Si fece crescere la
buca per poterlo tirar fuori; e visto, ci tornammo a desinare: e sempre si
ragionò delle cose antiche». Questa è una testimonianza è Francesco da
Sangallo, che all’epoca dei fatti era adolescente ma la descrive circa sessanta
anni più tardi, il 28 febbraio 1567. Si percepisce tutto l’entusiasmo e la
gioia provate nell’andare sul colle Oppio in compagnia del padre, Giuliano da
Sangallo (grande architetto), e di Michelangelo Buonarroti, per vedere con i
propri occhi quello che era appena venuto alla luce (è il caso di dirlo) nella
vigna di Felice de Fredis, in una zona detta delle Sette Sale, ossia la
grandiosa cisterna delle Terme di Traiano. A quell’epoca era papa Giulio II della Rovere, committente degli affreschi della volta della cappella fatta costruire da suo zio (papa Sisto IV) e delle prime due Stanze di Raffaello (Della Segnatura e di Eliodoro). Lo stesso pontefice, che definì il Laocoonte “mirabile statua di marmo”, non intendeva lasciarsela sfuggire e così la acquistò immediatamente, tanto che il 14 febbraio dello stesso 1506 era già stata trasferita nel Cortile del Belvedere dove poteva essere ammirata. L’influenza scaturita dalla visione del Laocoonte fu per molti artisti un effetto da cui era impossibile sottrarsi. Riprodotto sotto forma di incisioni e dunque così divulgato, ben presto la sua immagine finì per essere dipinta sui piatti prodotti dalle manifatture dell’Italia centrale, specie di Urbino, che dalle suddette incisioni traevano ispirazione. A suscitare l’ammirazione degli artisti fu sicuramente la complessa contorsione dei corpi del sacerdote troiano e dei suoi due figli, avvolti dalle spire dei due serpenti mandati da Atena e Poseidone affinché non vi fossero ostacoli all’ingresso del celebre cavallo ligneo nella città di Troia con la sua conseguente conquista. Movimento, pathos, forte espressività: sono questi i principali caratteri del Laocoonte, a cui fa riferimento un passo della Storia Naturale di Plinio (XXXVI, 37) che ricordava l’opera nel palazzo di Tito e la attribuiva a tre scultori originari di Rodi: Agesandro, Atanadoro e Polidoro. Quella rinvenuta a Roma doveva essere una trasposizione in marmo di un originale bronzeo, ma sia quest’ultimo (andato perduto) che quello marmoreo è possibile fossero opera degli stessi tre scultori, che sappiamo attivi a Roma nella seconda metà del I secolo a.C.
Giovanni Antonio Dosio, Il Cortile del Belvedere in costruzione, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1561 circa.
Papa
Giulio II destinò l’opera in uno dei più bei luoghi di Roma, in quegli anni
qualificato dall’intervento di Donato Bramante che progettò un cortile che
circondasse un giardino ornato di allori, cipressi, aranci, arricchendolo di
fontane e di nicchie per le statue. Si trattava di un luogo che intendeva
evocare il Giardino delle Esperidi, e per questo non poteva che essere
destinato ad una ristretta cerchia di persona, come suggeriva l’iscrizione che,
sulla porta di accesso, Giulio II aveva fatto collocare, derivandola da un
verso dell’Eneide (Vi, 258): «Procul este prophani». Il papa intendeva
configurarsi come nuovo imperatore, facendo nuovamente di Roma la capitale
indiscussa sia del papato che delle arti. Molte sculture raggiunsero così il
Vaticano, alcune già di proprietà di Giulio II, altre acquistate per
l’occasione (l’Ercole con in braccio il piccolo Telefo - a quel tempo ritenuto
Enea con Ascanio-, l’Apollo del Belvedere, l’Ercole in lotta con Anteo, la
Venuz Feliz e l’Arianna – creduta Cleopatra). Spentosi Giulio II, il suo
successore, Leone X, proseguì l’opera da lui iniziata, aggiungendo due grandi
statue di divinità fluviali: il Tevere e il Nilo. Adriano VI Florensz, nativo
di Utrecht (papa dal 1522 al 1523) poco apprezzò l’opera dei predecessori,
arrivando a chiudere il cortile che veniva indicato luogo di idoli pagani
(“sunt idola antiqua”!). Verso il 1533 Giovanni Angelo Montorsoli, un frate
scultore allievo di Michelangelo,
integrò il braccio destro del Laocoonte realizzandolo in terracotta.
Francesco I,
che guardava all’Italia con lo spirito di un principe italiano del Rinascimento,
affidò nel 1540 al bolognese Francesco Primaticcio (nominato “paintre ordinaire
du Roy”) il compito di realizzare un calco in bronzo del Laocoonte. Insieme
alle traduzioni in bronzo di altre celebri sculture (molte delle quali proprio
conservate nel Balvedere vaticano), il Laocoonte era destinato ad ornare il
palazzo di Fontainebleau con l’intento di farne «quasi una nuova Roma, con
grandissima soddisfazione di quel Re» (Vasari). La traduzione in bronzo del
Laocoonte e delle altre statue mediante un calco 1:1, poteva consentirlo solo
una committenza reale, dato l’alto costo del materiale e la complessità
dell’esecuzione. In effetti, stando alla gerarchia dei materiali, il bronzo
veniva prima del marmo e dunque il sovrano francese, se non poteva avere
“quello che tiene il papa”, poteva averne una versione che gareggiava con esso
per mezzo della preziosità del materiale e del processo meccanico di
riproduzione, che assicura fedeltà di forme rispetto all’originale. Nel
Cinquecento inoltre si diffonde la traduzione delle sculture più famose sotto forma
di bronzetti destinati ad alimentare il collezionismo privato, che attraverso
essi permetteva di ricreare nelle residenze private un piccolo museo di
antichità. Vasari ricorda che «Bramante, architetto anch’egli di papa Iulio,
[…] ordinò [al Sansovino] che dovesse ritrar di cera grande il Laocoonte, il
quale faceva ritrarre anco da altri, per gettarne poi uno di bronzo, cioè da
Zaccheria Zachi da Volterra, Alonso Berugetta spagnolo e d[al] Vecchio da
Bologna: i quali, quando tutti furono finiti, Bramante fece vederli a Raffael
Sanzio da Urbino […][e da lui] fu giudicato che il Sansovino, così giovane,
avesse passato tutti gli altri di gran lunga. Onde poi […] si dovesse fare
gittare di bronzo quel di Iacopo […] e datolo al cardinale [Domenico Grimani], lo
tenne fin che visse non men caro che se fusse l’antico».
Un bronzetto conservato al Museo del Bargello di Firenze, opera di Pietro Simoni da Barga (attivo a Firenze fra il 1571 e il 1589) è un esempio della produzione di bronzetti destinati al collezionismo privato.
Oltre a Primaticcio,
si ricorda che anche il grande artista spagnolo Velásquez fu incaricato da
Filippo IV di Spagna di realizzare calchi da celebri sculture romane, tra le
quali naturalmente anche il Laocoonte. Il moltiplicarsi del tema, espressione
suprema di arte e di dolore insieme (exemplum
artis, exemplum doloris), passa attraverso le interpretazioni di artisti e
di generi artistici. Quando El Greco dipinge il suo Laocoonte oggi alla
National Gallery di Washington, nonostante modifichi sensibilmente la
composizione rispetto al gruppo vaticano, riesce comunque a serbarne il
ricordo, rendendo riconoscibile il collegamento.
Jean
Baptiste Tuby (da Francois Girardon?), copia in marmo del Laocoonte 1:1, 1696,
Versailles. Durante la parentesi francese della scultura, si tenta di
ripristinare il braccio cinquecentesco (che nel frattempo era stato rimosso) in
quanto si credeva fosse opera di Michelangelo. A questo erronea convinzione si
giunse a seguito del ritrovamento nel 1720 di un braccio, forse l’abbozzo che
il Montorsoli aveva eseguito originariamente in terracotta. A Parigi viene
quindi bandito un concorso che porti alla integrazione della parte mancante.
François Girardon effettua un calco delle braccia della versione del Laocoonte esposta all’Ecole du Dessin.
Il concorso si rivela un fiasco: nessuno vi partecipa, forse perché consapevole
delle insormontabili difficoltà a confrontarsi con una immagine che nel corso
dei secoli si era ormai imposta e consolidata.
Six Benjamin, Visita
notturna di Napoleone e Maria Luisa al Laocoonte ( Visite aux flambeaux faite
par l’Empereur et l’Impératrice), inv. 33406 recto, Paris, Louvre.
Dopo il Congresso di Vienna e la
restituzione all’Italia delle principali opere d’arte trafugate dai commissari
napoleonici, il Laocoonte viene comunque integrato nella parte mancante,
inserendo al sacerdote troiano il suo braccio destro proteso verso l’alto, come
nella tradizione cinquecentesca.
All’aspetto
attuale, col braccio destro piegato in direzione della testa, si arriverà solo
nel 1957-59 quando il gruppo scultoreo verrà sottoposto al restauro di Filippo
Magi avvalendosi del frammento ritrovato nel 1905 dallo studioso di antichità
Pollack, che Ernesto Vergara Caffarelli nel 1954 giudicò essere quello
originale.
Copie
Leone X intendeva fare dono a Francesco I, re di
Francia, di una copia della scultura, affidandone nel 1520 l’esecuzione a
Baccio Bandinelli. Lo scultore realizzò un modello in cera e uno su cartone
come preparazione alla esecuzione in marmo.
Per prime realizzò le figure dei
figli, poi passò a quella del sacerdote troiano. Dopo una breve pausa, che
coincise col pontificato di Adriano VI, nel 1523 Bandinelli tornò a Roma e
riprese i lavori, portando a conclusione l’opera nel 1525. Ma la copia non
arrivò mai in Francia. Infatti il nuovo papa Clemente VII, ossia quel Giulio de’Medici
che era cugino di Leone X, decise di farla condurre a Firenze, dove sarebbe
stata collocata nel giardino di palazzo Medici. Dal 1659, con la vendita del palazzo
alla famiglia Riccardi, la statua (che era entrata a far parte dell’eredità di
Carlo de’ medici) fu trasferita agli Uffizi, dove ancora oggi si può ammirare
in fondo al corridoio di ponente. Nel 1762 l’opera restò danneggiata a seguito
di un incendio che coinvolse quel tratto della galleria. Al Gabinetto
Disegni e Stampe degli Uffizi, relativamente al Laooconte agli Uffizi,
si conservano due disegni di Baccio Bandinelli (nn. 14784F, 14785F) e un'incisione dell'Arrighetti della
seconda metà del Settecento.
Stefano Maderno, Laocoonte, 1630, h. cm 71, terracotta, San Pietroburgo, Ermitage (inv. 553)..
L'opera pervenne al Museo dell'Ermitage dalla collezione veneziana dell’Abate Filippo Farsetti, dove è documentata
nel 1778. Il suo
primo biografo (Giovanni Baglione) scriveva del Maderno: «‘e faceva bene li modelli levati dalle
più belle statue antiche e moderne, che in Roma si trovano. E molti de’ suoi
modelli sono gettati di metallo per servigio di varij Personaggi». Non sappiamo tuttavia se Maderno realizzò anche una
traduzione bronzea del Laocoonte. Il corpo del sacerdote troiano è frontale e s’incurva
ad arco più che nell’originale, mentre la testa è piegata al lato in modo poco
naturale. Le figure sono inoltre ravvicinate tra loro. «Ma basta questa
flessione dell’asse compositivo per imprimere all’insieme un accento drammatico
e per rendere più commovente il momento della violenza e della morte; la
scena, cioè l’altare, è appena accennato. Il modellato è semplificato e si
arricchisce di ombre graduate. L’espressione del protagonista, con il volto
rivolto verso chi lo osserva, quasi a sollecitarne la commiserazione, esprime
un dolore svuotato di drammaticità rispondendo più alla sensibilità del tempo e
a un sentimento umano di pietà» (M.G. Bernardini)
Componimenti poetici e
letterari
Il gruppo
scultoreo ispirò anche componimenti poetici, come quello scritto dall’erudito
Eurialo Morani da Ascoli in occasione del passaggio di Carlo V da Roma nel
1536, reduce dalla vittoriosa campagna militare in Tunisia. Si tratta de Le Stanze sopra le statue di Laocoonte, di
Venere e d’Apollo, dedicate ad Alfonso d’Avalos, marchese di Vasto.
Il
poemetto venne dato alle stampe il 20 giugno 1539 per i tipi di M. Valerio e
Luigi Dorico, fratelli bresciani, stampatori
a Campo di Fiore. Il Morani era molto
celebre nella Roma del suo tempo, amico dell’Aretino e poeta improvvisatore. Le
Stanze appartengono al genere della produzione encomiastica, la ekphrasis (dal greco: descrizione),
sviluppata nell’antichità greca e romana, in cui l’autore descrive e commenta
in forma di componimento poetico un’altra opera d’arte, gareggiando con essa in
abilità espressiva.
I ritratti grafici del Laocoonte
La statua è
entrata a far parte del corpus grafico di numerosissimi artisti fin dal
Cinquecento. Ne sono prova i tanti fogli conservati nei vari musei e collezioni
del mondo, qui riassunti nelle immagini più significative, scalate in ordine
cronologico.
Filippino Lippi, Rovine antiche con Laocoonte, Firenze, Uffizi.
Baccio Bandinelli, Homme nu,
assis, vu de face, la jambe droite levée, Paris, Louvre, Fonds des dessins
et miniatures, petit format, inv. 93 recto.
Francesco
Mazzola detto il Parmigianino, Etude d’après le Laocoon, études d’un crucifix et d’une Pietà,
Paris, Louvre, inv. 6416, recto.
Francesco
Mazzola, il Parmigianino, Studio della testa del Laocoonte,
Chatsworth.
Jacopo Sansovino, Il figlio più giovane di
Laocoonte, Paris, Musée du Louvre, Cabinet des dessins, inv. 2712, recto.
Federico Zuccari (Sant’Angelo in Vado, 1540/41 – Ancona, 1609), Taddeo Zuccari disegna le antiche statue in
Belvedere, ultimo quarto del XVI secolo, disegno a penna e inchiostro bruno
acquarellato con tracce di carboncino e sanguigna, mm 75 x 425, Los Angeles,
Getty Museum, inv. 99GA.6.17.
Il giovane
ritratto di tre quarti seduto al centro della composizione è Taddeo Zuccari,
fratello dell’autore. E’ colto mentre riproduce sul suo taccuino la statua del
Laocoonte. Oltre a quest’ultima si riconoscono la statua dell’Apollo, del
Tevere e del Nilo. Sullo sfondo si riconosce l’ala settentrionale del palazzo
apostolico edificata da Niccolò V (1447-1455), dove al terzo piano si trovano
le “camere di Raffaello”, come indica la dicitura.Da queste prende avvio il “corridore”
di levante, un passaggio a diversi piani attraverso i quali superare i
dislivelli del terreno, progettato da Bramante con lo scopo di collegare l’abituale
dimora dei papi con la loro residenza estiva, ossia il palazzetto di Belvedere,
fatto costruire da papa Innocenzo VIII (1484-1492) all’estremità settentrionale
del Vaticano. Sulla destra si nota la cupola di San Pietro in costruzione. Il
disegno reca un verso in terza rima: “Inutile fatiga è ‘l punteggiare / Ma lo
servar qui l’arte il gran desio / il frutto fa, chi qui vole studiare”. Il giardino
delle statue del Vaticano era accessibile a quegli artisti che ritenevano fondamentale
completare la propria formazione mediante lo studio e la copiatura dei
capolavori dell’antichità, coniugandole con l’osservazione delle novità
rinascimentali di Michelangelo e Raffaello. Aveva quattordici anni quando
Taddeo Zuccari lasciò la cittadina natale, Sant’Angelo in Vado, per recarsi a
Roma, spinto dal desiderio di intraprendere la professione artistica. Federico
Zuccari intese realizzare una biografia illustrata di suo fratello Taddeo, la
cui vita si era prematuramente spenta nel 1566, esaltandone le qualità di eroe “moderno”,
che seppur autodidatta e di poveri natali, riuscì a superare ostacoli e
difficoltà attraverso impegno e fatica.
Antonio Campi, Trois études de têtes; trois petites figures
en buste, conversant, inv. 7846, recto, Paris, Louvre.
Copia da Annibale Carracci, Laocoonte (Laocoon et ses
deux enfants saisis par les serpents) , disegno. Piccolo formato, Paris, Musée du Louvre, Cabinet des
dessins, Fonds des dessins et miniatures, Inv. 7578 recto.
Peter Paul Rubens (Siegen, 1577 – Anvers, 1640), Laocoonte e i suoi figli, 1601/02 o 1605/08, due fogli di carta
congiunti, gesso nero, mm 465 x 457, collezione Resta, ora Milano, Biblioteca
Ambrosiana, F. 249 inf. Fol. 4.
Sicuramente
Rubens conosceva il Laocoonte ben prima del suo arrivo in Italia, dal momento
che lo studio dei capolavori d’arte antica attraverso le riproduzioni grafiche
era parte integrante della formazione dei giovani artisti dell’Europa intera.
Ne è prova l’Ercole in lotta con due
Amazzoni dipinto insieme a Jan Breughel il Vecchio (ora Potsdam, Schloss
Sanssouci, Bildergalerie, inv. GK 100021), dove il groppo principale ricorda la
posa del Laocoonte.
Gian Lorenzo Bernini, Torso del Laocoonte, Lipsia.
Arrivato
a Parigi nel giugno 1665, Bernini è sollecitato da Paul Fréart de Chantelou ad
esprimere un giudizio sull’antica statua. Nella capitale francese il grande
artista italiano celebrerà il valore estetico degli “antichi marmi”,
raccomandando al tempo stesso l’esercizio del disegno e dell’imitazione in
senso classico. Sul Laocoonte usa un solo aggettivo, ma efficace: “admirable”.
Charles le Brun, La Douleur
aiguë: tête d’homme, vue de trois-quarts, inv. 28320 recto, Paris, Louvre.
Edme Bouchardon |
Edme Bouchardon |
Edme Bouchardon |
Edme Bouchardon |
Edme Bouchardon,
Torse de Laocoon,
|
Giovan Domenico Campiglia |
Traduzioni pittoriche fedeli
In pittura,
il Laocoonte è stato ritratto da Alessandro
Allori (1535-1607, come prova il dipinto eseguito ad olio su tavola, oggi
in collezione privata a New York (cm 73 x 57,2).
Giovanni Paolo Panini (Piacenza, 1691 – Roma 1765), Roma antica, 1757, olio su tela, cm
172,1 x 229,9, New York, Metropolitan Museum. Dipinta, insieme al suo pendant
raffigurante la Roma moderna, per il
Conte di Stainville, duca di Choiseul, raffigurato nel dipinto con un libro in
mano.
Pompeo Batoni (Lucca, 1708- Roma1787), Ritratto di Thomas Dundas, poi primo barone Dundas, 1763-64, olio su tela, cm 298 x 196,8, Aske Hall, Richmond Yorkshire, The Marquess of Zetland.
"Da sinistra a destra si vedono, in un allestimento d'invenzione, l'Apollo del Belvedere, il Laocoonte, il cosiddetto Antinoo del Belvedere (in realtà un Hermes) e l'Arianna vaticana, le canoniche sculture esposte nel cortile del Belvedere in Vaticano che esercitavano un fascino magnetico sui principi e sui sovrani d'Europa e che facevano del viaggio in Italia una tappa dei colti gentiluomini inglesi. La fontana del Tritone nella nicchia deriva da una delle figure accessorie nel bacino della fontana del Moro di Bernini in piazza Navona. La rarità di queste sculture nei ritratti di Batoni può essere spiegata col fatto che è certo, benché non provato, che comportavano una spesa aggiuntiva per l'inserimento di un maggior numero di figure nel quadro e pochi tra i clienti di Batoni l'avrebbero potuta affrontare, tranne Dundas e Razumovsky (del quale pure realizzò un ritratto dall'ambientazione simile), due tra i suoi committenti più facoltosi. (...) La severità dell'impianto antichizzante del ritratto è contraddetta dalla vivacità del movimento che esaspera la posa a gambe incrociate tipica della ritrattistica inglese, traducendola quasi in un passo di danza. La combinazione dell'atteggiamento e dello sfondo ha un effetto irresistibile, un tour de force che pone questo dipinto tra i ritratti più impegnativi di Batoni. Il colore nell'abito di Dundas è un bell'esempio di quello che era definito "rosso Batoni". Il frock di taglio italiano è rifinito con galloni d'oro, le falde tese lateralmente sottolineano la torsione del corpo, che conferisce eleganza al portamento. La foggia dei polsini, detta à la marinière, era caratteristica delle tenute di mare nei primi anni del secolo e veniva spesso adottata dai gentiluomini alla moda. A completamento del suo raffinato abbigliamento, Dundas ostenta un bastone con il pomo d'avorio e un tricorno di castoro profilato con una bordura dorata". (cfr. Edgar Peters Bowron, in Pompeo Batoni. 1708-1787. L'Europa delle Corti e il Grand Tour, Silvana Editoriale, 2008, pp. 272-273, cat. 41)
Hubert Robert (1733-1808), Il ritrovamento del Laocoonte, 1773, Virginia Museum of Fine Arts, Richmond,
Virginia, United States of America.
Libere versioni del soggetto
Giulio
Romano, Laocoonte, Mantova, palazzo Te, Sala di Troia.
Anonimo artista francese del XVII secolo, Laocoonte, Paris, Musée du Louvre.
François Perrier
detto le Bourguignon, (1590-1650), Laocoonte, olio su tela, cm 63 x 43, Eric Coatalem
Gallery.
Francesco Hayez, Laocoonte, 1802, Milano, Accademia di Brera.
Incisioni
Giovanni Antonio da Brescia, il Laocoonte, 1508 circa, London, British Museum, inventory 1845-8-25-707. Si noti che l'immagine è riportata in controparte.
Marco Dente, 1515 circa.
Marco Dente, n.d.
Attribuito a Nicolò Boldrini (1500 circa, attivo a Venezia tra il 1530 e il 1570), caricatura del Laocoonte, da Tiziano Vecellio, 1520-60, mm 273 x 400. “Un gentil pensiero di tre bertuccie sedenti, attorniate da serpi, nella guisa de Laocoonte e de’ figluoli posti in Belvedere di Roma, così il Ridolfi per primo identificava l’opera come ispirata al celebre gruppo. Tiziano sembra rispondere con questa caricatura all’eccessiva venerazione per l’arte classica che si era diffusa soprattutto fra gli artisti fiorentini e romani.
François Perrier
detto le Bourguignon, (1590-1650), Laocoonte,
dal libro Segmenta Nobilium Signorum et Statuarum, Rome, 1638.
William Hogart, Analysis of Beauty
Dettaglio di una
veduta del cortile del Belvedere col Laocoonte, incisione colorata a mano di
Luis Ducros e Giovanni Volpato, 1787-1792. Si può notare il restauro operato da
Agostino Cornacchini a metà Settecento, riguardante il braccio destro del
figlio più giovane di Laocoonte, che è rivolto in alto come quello del padre.
Johann Georg Heck, Iconographic Encyclopaedia of Science, Literature, and Art, 6 (1851). Da sinistra a destra: Ercole col piccolo Telefo sul suo braccio; Antinoo del Belvedere; Fanciullo che strozza un’oca, Meleagro, Germanico; in basso, Apollo del Belvedere, Laocoonte, Fauno.
maioliche, cammei, arti minori
Francesco Xanto Avelli da Rovigo, Laocoonte, 1530, diametro
com 47,7, maiolica dipinta, Ermitage.
Francesco Xanto Avelli da Rovigo (Rovigo, 1487 circa
– 1542), Laocoonte, 1532, maiolica, diametro cm 26, New York, Metropolitan
Museum, Iscrizione sul retro1532/Da Serpi Laocoonte e i figli / uccisi, / Nel
II de la Eneida d Vgilio M/ fra:xato A/da Rovigo, i/Urbino.
Citazioni dal Laocoonte
Tiziano, Bacco e Arianna, Londra, National Gallery.
Tiziano, Polittico Averoldi, Brescia, Museo Civico.
Domenico Zampieri detto il Domenichino, San Giovanni Evangelista, Collezione privata.
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