sabato 5 gennaio 2013

L'immagine del bosco nella pittura II (dal secolo barocco al tardo Settecento)

LA NASCITA DEL PAESAGGIO COME GENERE AUTONOMO Nel secolo successivo, quando la rappresentazione del paesaggio diviene genere indipendente, la rappresentazione delle foreste si fa soggetto privilegiato, indagato nelle sue pressoché infinite sfumature soprattutto dagli artisti olandesi. All’ombra di grandi e fitti alberi accade talvolta di trovare rappresentato Cristo intento a compiere miracoli (1600-1609, tavola, 57,8 x 94,6 cm, New York, Metropolitan Museum of Art) dell’olandese David Vinckboons (Mechelen, 1576- Amsterdam, 1632/33).
In modo lento ma progressivo, l’immagine del bosco diventa fenomenica e il più possibile oggettiva, risultato dei primi esercizi di studio en plein-air per lo più limitati al solo esercizio di preparazione grafica. Così è per i molti disegni di Rembrandt, tra cui il Cottage all’ingresso di un bosco (29,9 x 45,5, New York, Metropolitan), il più grande foglio del grande artista olandese ad avere un paesaggio boscoso come soggetto esclusivo della composizione.
Sistematica è l’indagine sulle foreste condotta dall’olandese Anthonie Waterloo (1609 - 1690), praticata in prevalenza attraverso teniche grafiche. Ciononostante la sua influenza sui pittori francesi dell’ottocentesca École de Barbizon fu molto forte, così come la sua opera era ben nota agli acquerellisti inglesi John Cozens e Turner. In Waterloo il segno attento e meticoloso, la sua visione ampia e prospetticamente sicura, il gusto naturalistico accentuato e mai subordinato al racconto figurale, ne fanno uno dei più raffinati interpreti della natura, colta direttamente sul posto. L’artista visitò molti luoghi della Germania (specie lungo il fiume Rhine) e viaggiò anche attraverso la Svizzera, la Francia, la Polonia e l’Italia. Nel pastello acquerellato conservato al Klassik Stiftung di Weimar, il carattere sperimentale della tecnica grafica e il piccolo formato (19,1 x 14,8 cm) assecondano la vocazione di Waterloo pittore d’après nature, che preferisce il foglio e il cartoncino alla tela, decisamente più ingombrante da trasportare.
Lo conferma anche il Paesaggio boscoso del Metropolitan Museum (30 x 18 cm), eseguito a gessetto nero con tracce di inchiostro e di acquerellature, suggestivo e palpitante di vita anche nella totale assenza di colore: una sinfonia di grigi, intrisi di luminosità meridiana e di frescura estiva. Di natura squisitamente pittorica è l’approccio al paesaggio di Peter Paul Rubens (Siegen, Renania, 1577- Anversa, 1640), che nella Caccia al cervo (1635), dello stesso museo americano, dipinge una foresta come filtrata dai raggi di sole del mattino, mentre è in atto una battuta di caccia (olio su tavola, 61,5 x 90,2).
Nell’intensissima carriera del pittore, che fu soprattutto uno straordinario inventore di composizioni religiose, allegoriche e mitologiche, la rappresentazione di boschi e di paesaggi costituiva quasi un divertissement coltivato in particolare negli ultimi anni della sua vita. Colte e virtuosistiche sono le sue raffigurazioni di Caccia al cinghiale, tema che affronta in almeno due versioni di grande formato, una a Dresda (Gemaldegalerie) l’altra a Madrid (Museo del Prado, qui riprodotta). Lo scontro tra i cavalli e l’animale ormai braccato (facile è l’allusione al cinghiale calidonio mandato dalla gelosia di Ares ad uccidere Adone, del quale si era innamorata Venere) viene reso con straordinaria forza ed energia, e di certo Rubens in questo dovette molto allo studio della celebre Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci di cui ha lasciato una copia divenuta celebre.
Analogamente il pittore fiammingo Gillis van Coninxloo (Anversa, 1544- Amsterdam, 1607) spazia da intime raffigurazioni di boschi, dove la presenza umana è a fatica rintracciabile, fino a grandi tele in cui la radura boscosa diventa palcoscenico ideale per la descrizione del mito. Ne abbiamo prova confrontando il piccolo ma lussureggiante olio su rame del Museo dei Prado di Madrid (24 x 19 cm) con la sontuosa Latona e i pastori della Licia (114 x 204 cm, San Pietroburgo, Ermitage), dove questi ultimi sono abilmente resi nella loro metamorfosi in rane, colpevoli di aver intorpidito l’acqua dello stagno in cui stava per bere Latona, madre di Apollo e di Diana.
L’interpretazione del soggetto ovidiano è affine a quella che ne dà Jan Brueghel (Bruxelles, 1568 – 1625) del Rijksmuseum di Amsterdam (1595-1610 circa).3
Affronta il tema del bosco attraversato dai viaggiatori l’olandese Herman van Swanevelt, detto Herman d’Italie (Woerden, 1600- Parigi, 1665), che traspone su di un piano laico la fortunata iconografia della Fuga in Egitto, soggetto impiegato svariate volte come pretesto per un racconto paesaggistico di ampio respiro anche da artisti tedeschi, come l’italianizzato Adam Elsheimer (Francoforte, 1578 – Roma, 1610; di quest’ultimo di veda il celebre esemplare a Monaco, Alte Pinakothek).
Jacob van Ruisdael (1628/29 – 1682) è, tra i pittori di paesaggio olandesi, sicuramente colui che eserciterà più influenza sugli artisti del XIX secolo. Anche Goethe ne fu coinvolto, tanto che dedicò all’artista un saggio, Morgenblatt für gebildete Stände, del 1816. L’opera del pittore olandese era ben nota in Germania, e a Dresda in particolare è conservata una delle tele che ispirarono lo scritto del poeta, Cascata (99 x 85 cm, Staaliche Kunstsammlungen – Gemaldegalerie Alte Meister), dove all’impetuoso corso d’acqua fanno da sfondo boschi di abeti e, in alto, un castello. Tra i molti dipinti dell’artista ci paiono significativi al fine della nostra ricerca quelli oggi a Washington (National Gallery, olio su tela, 105,5 x 123,4 cm), a New York (Metropolitan Museum of Art) e a San Pietroburgo (Ermitage), tutti legati dalla presenza del bosco con l’acqua al suo interno, sia sotto forma di stagno o di torrente (qui riprodotti nello stesso ordine in cui sono stati citati).
L’Italia, con Roma, è il luogo ove la classicità investe anche la rappresentazione del paesaggio, conferendogli un aspetto nobilitato e idealizzato. Nelle tele dei bolognesi Domenico Zampieri detto il Domenichino e di Francesco Albani, non si ha tanto il ritratto del bosco così com’è ma come “dovrebbe essere”. È soprattutto il primo di questi due artisti ad aver dipinto boschi di estrema chiarezza formale, al punto che la sua eredità artistica sarà raccolta ed elaborata di francesi Claude Lorrain e Nicolas Poussin, corrispettivi di Pierre Corneille in ambito letterario. Nelle loro opere la natura è costretta entro le complesse e imponenti strutture delle composizioni secondo una disciplina quasi matematica. Nelle intenzioni degli artisti persino il bosco diviene elemento paesaggistico semplificato e talvolta schematizzato, quasi che i temi eroici in esso narrati esigessero un tributo agli alberi in termini di spontaneità e immediatezza.4 Due qualità che Poussin, nelle esercitazioni grafiche, mantiene costanti, e sono la prova che l’artista amava esplorare la campagna romana ricavandone freschissimi appunti ad inchiostro acquerellato, come il foglio del Louvre scelto per questa carrellata dal titolo Sentiero nella foresta. Se non si conoscesse per certo il nome del suo autore, si penserebbe sia stato dipinto da un artista dell’Ottocento, di sensibilità romantica.
Tra i più singolari contributi dell’arte italiana vi è Antonio Francesco Peruzzini, artista anconetano la cui attività ha spaziato in molte città della Penisola, collaborando con pittori del calibro di Sebastiano Ricci e di Alessandro Magnasco. Con quest’ultimo partecipa all’esecuzione – tra i molti che si potrebbero citare - del Grande bosco, un grande dipinto oggi conservato alle Gallerie dell’Accademia di Venezia (olio su tela, 174 x 237 cm), considerato dalla critica «un poema pittorico d’una grandiosità senza pari, informato a un senso panteistico della natura, che l’arte nostra anteriore non aveva conosciuto».5 In quella tela, se al Magnasco spetta la sola esecuzione dei quattro monaci, quasi eremiti in preghiera, è a Peruzzini che spetta il merito di aver descritto la maestosità dell’albero secolare, così ampio da abbracciare, con i suoi rami, la quasi totalità del campo pittorico. Il pennello dell’artista compie compie passaggi rapidi e lievi, e il moto leggero e improvviso fluisce dalla sua mano come una musica incantatrice, mentre il gesto libero inclina a una prosa pre-impressionistica, divenendo puro fascino ed esaltante trionfo del mezzo pittorico.
Nel Settecento si moltiplicano i nomi dei pittori che si dedicano alla rappresentazione dei boschi. Per la Francia sono degni di menzione la Foresta di Francois Boucher (Parigi, 1703 – 1770) del Louvre (olio su tela, 131 x 163 cm), dipinto intorno al 1740, dove l’artista descrive una natura “recomposée”, ossia concepita dall’invenzione ma preceduta da una diretta osservazione dal vero, assecondando il gusto per il pittoresco.
Una teatralità esibita che tuttavia non manca di dare la sensazione di silenziosa maestà attraverso grandi alberi dal morbido fogliame. La presenza dei due soldati romani tradisce la formazione di Boucher come pittore di figura, forse in questo caso derivante dall’esempio del napoletano Salvator Rosa. Più giovane e dunque con una sensibilità più moderna ci appare Jean Honoré Fragonard (Grasse 1732 – Parigi, 1806). In un disegno realizzato a matita rossa – la sua tecnica grafica preferita – mostra un gruppo di giovani riuniti in prossimità di un bosco, introdotto dalle vaporose chiome degli alberi che, per effetto delle minuscole proporzioni dei personaggi, appaiono enormi (New York, Metropolitan Museum, 375 x 492 mm).
Simile è l’approccio al paesaggio boscoso dell’inglese Thomas Gainsborough (Sudbury, Suffolk, 1727- Londra, 1788), interpretato tuttavia con tecnica più spigliata e immediata, sull’esempio degli olandesi del secolo precedente. Qui si riporta il Paesaggio con viandante che attraversa un ponte, dello stesso museo newyorkese (gessetto nero acquerellato, 276 x 368 mm).

1 commento:

  1. Lavoro svolto a cura del prof. Fabio Chiodini nell'ambito di un progetto condotto in una classe del Liceo Laura Bassi di Bologna.

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