lunedì 7 gennaio 2013

L'immagine del bosco nelle avanguardie del Novecento (IV)

L’immagine del bosco accompagna le avanguardie che nei primi decenni del secolo scorso hanno attraversato la storia dell’arte. Il superamento della fase di semplice rappresentazione era già avvenuto, come abbiamo visto, con Cézanne, e la sua lezione sarà raccolta dai cubisti, che ne elaboreranno compiutamente le intuizioni. Se nella Parigi di inizio Novecento Pablo Picasso non sembra interessarsi al paesaggio, è il collega e amico George Braque a interpretarlo nella tipica scomposizione di piani, dove tutti gli elementi della visione si compenetrano quasi a suggerire una pluralità di punti di vista. La scoperta del relativismo sembra dunque non essere di pertinenza esclusiva della fisica e di Albert Einstein, ma diviene indipendente intuizione degli stessi pittori, avvalorando quel misterioso meccanismo di vasi comunicanti che la cultura in certe epoche rivela. La lezione di Braque, tradotta tuttavia con ritmi più fluidi e morbidi, sembra interessare anche lo spanolo Joaquim Sunyer (Sitges, 1875-1956) che in Paesaggio a Fornalutx (Barcellona, Museu Nacional d’Art de Catalunya) conferisce al bosco in primo piano una linea ondulata, morbida e nervosa a un tempo.
Dalla sfaccettata e cromaticamente austera visione cubista (almeno in quella dei primi anni dal 1907 al 1913 circa), il nostro sguardo passa alla Germania, e alle proposte che i pittori dell’Espressionismo formulano sulle loro tele. Nel piccolo dipinto di Schmidt Rottluff della Collezione Thyssen di Madrid, dipinto nel 1913, un sole abbagliante colora di giallo l’intero paesaggio, dove le uniche presenze verdi e rosse sono costituite dai profili aguzzi della pineta. La semplificazione si avvale di un segno duro e a tratti aspro, tagliente, in linea con il recupero delle xilografie tedesche del XV secolo avviato dai pittori espressionisti che in esse individuavano uno degli aspetti specifici dell’arte del loro Paese.
Col Novecento il fortunatissimo tema del nudo, specie femminile, all’interno di un ambiente naturale, viene riproposto anche da alcuni artisti di formazione e stile diversi. Ne abbiamo selezionati tre, appartenenti a correnti pittoriche diverse. Di questi il più antico è quello dipinto nel 1908 dall’artista che sarà ricordato soprattutto come caposcuola del Suprematismo russo, Kasimir Malevič (Kiev, 1878 – San Pietroburgo, 1935). Conservata al Museo russo di San Pietroburgo. Il quadro ritrae un Bosco con fiume e bagnanti (olio su tela, 53 x 42 cm), dove la qualità del colore si fa decisamente più lirica e spirituale rispetto ai Fauves francesi o agli Espressionisti tedeschi, quasi da fiaba, in linea per certi versi alla pittura di quegli anni di Vasilij Kandinskij, insieme a Malevic iscritto all’Associazione degli Artisti di Mosca.
Vicino al cubismo, di cui elabora una specifica, caratterizzante versione cilindrica (al punto da essere stata chiamata anche “tubismo”) è Fernand Léger (1881-1955), qui proposto con Tre nudi in un bosco, del 1909-10 (olio su tela, 120 x 170 cm, Otterlo, Kröller-Müller Museum). Esposto al Salon des Indépendants del 1911, Guillaume Apollinaire riferendosi al dipinto disse in quell’occasione che «M. Fernand Léger a encore l’accent le plus inhumain de cette salle. Son art est difficile», mentre l’artista anni dopo confessò che per lui quell’opera «n’étaient qu’un bataille de volumes», rivelando un interesse puramente strumentale della figura umana e dunque del bosco, piegati a finalità espressive del tutto sperimentali.14
Di Paul Delvaux (1897-1994), esponente di spicco del Surrealismo, non si può non ricordare Il risveglio della foresta (1936, Chicago, Art Institute, olio su tela, 170,2 x 225,4 cm), dove a dispetto del titolo, di memoria ancora simbolista e caro allo stile Art nouveau, troviamo figure nude che si sforzano, senza riuscirvi, di ricreare un’atmosfera idillica. Il loro muoversi incerto e lo sguardo spaesato, tradiscono la consapevolezza di essere osservati come fossero dentro a un ambiente artificiale, costruito apposta per loro. La scoperta della sessualità freudiana ha definitivamente spezzato l’incanto, così anche l’immagine del bosco ha smarrito l’incontaminata freschezza che da sempre lo accompagnava.
L’immagine della foresta con il progressivo avanzare verso il cuore del Novecento, sembra non avere che due strade: o dissolversi nell’opera dell’Espressionismo astratto americano, o irrigidirsi divenendo bosco fossile e pietrificato, come nelle tele di Max Ernst. Nel primo caso si veda la tela del Guggenheim Museum di Venezia (221,3 x 114,6 cm, olio su tela, Peggy Guggenheim Collection, 1947) di Jackson Pollock (1912-1956), dove solo il titolo Enchanted forest aiuta ad evocare, nella nostra mente, l’immagine aggrovigliata dei rami tradotta nell’azione del dripping. Così scrive Elizabeth C. Childs nel sito del Guggenheim Museum: «Pollock creates a delicate balance of form and color through orchestrating syncopated rhythms of lines that surge, swell, retreat, and pause only briefly before plunging anew into continuous, lyrical motion. One’s eye follows eagerly, pursuing first one dripping rope of color and then another, without being arrested by any dominant focus. Rather than describing a form, Pollock’s line thus becomes continuous form itself.» Ma dove i rami? Dove le ombre? Pura memoria, sostenuta dal titolo del dipinto.
Max Ernst torna più volte a raffigurare paesaggi dove i luoghi della sua infanzia, le foreste nei dintorni di Bruhl, presso Colonia, sembrano come pietrificarsi, mantenendo tuttavia una loro vita interna, misteriosa, brulicante proprio attraverso la particolare texture che, grazie a una nuova tecnica, il frottage, dà vita a minerali e a forme zoo ed antropomorfe. Foreste vergini rivissute alla luce di inedite associazioni: o a tempi preistorici, quando ancora la civiltà non era apparsa, oppure a epoche future, dove la vita umana si immagina caduta vittima di altre forze e il pericolo della sua estinzione – avvertito specie dopo aver sperimentato la bomba atomica – si faceva un pericolo concreto e quotidiano. Nemmeno quando lasciò l’Europa allo scoppio della Grande guerra, Ernst abbandonò quel tema, anche se la foresta che gli dà nuova ispirazione ora non è più quella dell’infanzia, ma quella dei nativi americani Hopi. Dalla Foresta del Guggenheim Museum (1927-28, 96,3 x 129,5 cm) di Venezia a Totem e tabù della Neue Pinakothek di Monaco (1941-42, 72 x 92 cm, in prestito a lungo termine dalla Theo-Wormland-Stiftung) fino al titolo sinistro, ma particolarmente calzante per chiudere questa carrellata, del dipinto L’ultimo bosco (La dernière forêt del 1969, conservato a Brühl, Max Ernst Museum), Ernst accompagna per tutta la vita la sua personalissima visione del bosco in modo coerente fino al limite dell’ossessivo.
Ma in quello stesso 1969, anno dello sbarco dell’uomo sulla luna, Ernst dipinge anche la Naissance d’une galaxie (Basilea, Fondazione Beyeler), segno che il mistero del bosco aveva come esaurito il potere seduttivo e lo sguardo del pittore ne cercava altri, ben più lontani e indecifrabili.

1 commento:

  1. Lavoro svolto a cura del prof. Fabio Chiodini nell'ambito di un progetto condotto in una classe del Liceo Laura Bassi di Bologna.

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